L’estremista borghese amata dalla sinistra vip e stipendiata da Veltroni

La vita di Silvia Baraldini dalla contestazione negli atenei americani, alla sanguinosa rapina dell’organizzazione comunista «19 Maggio», fino alle consulenze per il Comune di Roma

Guido Mattioni

da Milano

Per lei si sono scomodati in tanti, dal premio Nobel Dario Fo allo scrittore Umberto Eco, dal giornalista castrista Gianni Minà al cantautore Francesco Guccini. Perfino il ministro di Giustizia dell’epoca, Oliviero Diliberto - era il 24 agosto 1999 - si era precipitato all’aeroporto di Ciampino, quello per gli ospiti illustri, dove la figliola prodiga Silvia Baraldini era atterrata ponendo fine alla prigionia in terra americana, dov’era stata condannata a complessivi 43 anni di carcere per una sommatoria di capi d’imputazione: concorso in evasione, associazione sovversiva, complicità in rapina con il corollario (tre anni) di ingiurie alla Corte.
Per loro, invece, almeno in Italia, non è mai stata spesa nemmeno una parola. «Loro» erano nove bambini di Nyack, una cittadina nello stato di New York, che la sera del 20 ottobre 1981 non avevano visto tornare a casa la loro mamma, Weaverly Brown, agente di polizia e i loro papà, rispettivamente il sergente Edward O’Grady e la guardia giurata che quel giorno era al volante di un furgone blindato della società Brink’s, preso d’assalto dai complici della Baraldini. E quei bambini, i loro genitori non li avrebbero visti tornare mai più. Nove orfani per un bottino di 900mila dollari - 100mila dollari a orfano - tanto aveva fruttato quell’assalto a mano armata per la «causa» dell’organizzazione comunista «19 Maggio», peraltro legalmente riconosciuta dal governo americano. Per concorso nell’organizzazione di quella rapina, la Baraldini era stata arrestata il 9 novembre 1982, e cinque mesi dopo la scarcerazione su cauzione, era finita nuovamente in cella per lo stesso reato il 25 maggio 1983.
L’America della Baraldini - romana, classe 1947, famiglia borghese con casa in via del Babuino - non era stata quella dal volto duro fatto di privazioni e stenti conosciuta da generazioni di emigranti italiani. Lei lì c’era entrata nel ’61, sedicenne, passando dalla porta principale - l’aeroporto di New York - al seguito del padre, inizialmente dirigente della filiale Olivetti di Manhattan e in seguito funzionario dell’ambasciata italiana a Washington. È così in America che la Baraldini conclude le scuole superiori, iniziando ad avvicinarsi ai movimenti studenteschi più estremisti che si battevano per i diritti politici dei neri. E sempre in America entra all’università, alla fine degli anni Sessanta, scegliendo non a caso l’ateneo statale del Wisconsin, all’epoca uno dei luoghi più caldi della contestazione studentesca al cosiddetto «sistema».
È in quel Paese «repressivo» al punto da riconoscere legalmente anche i movimenti che lo combattevano dall’interno che l’ultraborghese Baraldini si dedica con impegno crescente a fianco dei movimenti di contestazione più radicali, spostandosi progressivamente dalle legittime richieste dei diritti delle donne all’altrettanto apparentemente degna lotta contro l’apartheid in Africa. Nobile la causa, un po’ meno i compagni di strada scelti: come Assata Shakur, alias Joanne Chesimard, condannata all’ergastolo per l’assassinio di un agente della stradale. Poco nobili anche i mezzi usati - complicità nell’evasione della pasionaria, il 2 novembre ’79, costato la vita a tre guardie carcerarie - e i meriti raccolti, come il riconoscimento assegnatole dal governo dello Zimbabwe, una delle peggiori dittature africane.
Così, dopo la severa condanna a 43 anni comminatale il 15 febbraio 1984 da una corte federale (nell’occasione l’accusa chiede e ottiene il massimo della pena) la Baraldini inizia una lunga serie di trasferimenti da un carcere all’altro degli Stati Uniti: prima a New York, poi a Pleasanton, California, successivamente in quello estremamente duro di Lexington, Kentucky, dove nel 1988 le viene diagnosticato un tumore. Trasferita da lì in Florida, a Marianna, viene sottoposta ad alcuni interventi chirurgici prima di approdare all’ultima sua cella in terra americana, quella del meno restrittivo carcere di Danbury, nel Connecticut.
La malattia, la scomparsa della sorella Marina in un incidente aereo e le condizioni di salute della madre (poi deceduta nell’aprile 2001) contribuiscono a giungere alla decisione respinta in precedenza quattro volte dalla giustizia Usa: rimpatriare la Baraldini con l’impegno di farle scontare la restante parte di pena fino alla prevista scadenza, il 29 luglio 2008. È l’11 luglio ’99 quando i due governi raggiungono l’accordo. Una trattativa in cui, si è detto, può aver anche pesato l’imbarazzante assoluzione ricevuta in patria dai piloti militari americani responsabili della strage della funivia Cermis (3 febbraio ’98, venti morti).
La Baraldini, comunque, uscirà di cella prima del previsto.

Il 20 aprile 2001, grazie anche alla decisione del Dipartimento di Giustizia Usa di non opporsi a una sospensione della pena per motivi di salute, le vengono concessi i domiciliari per sottoporsi alle cure di cui ha bisogno in seguito a un aggravamento della malattia. Il Comune di Roma, nelle ore libere, le offre anche una consulenza. E ieri, infine, la scarcerazione in base al provvedimento di indulto.

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