Cronaca locale

L’età del «miracolo» Niente politica e voglia di crescere

(...) la non raffinata gastronomia fieristica. Per molti la Campionaria era l'occasione di una mangiata alla buona, magari in compagnia e in piedi, con le lasagne calde. Parlo di un'Italia povera che a me, nel ricordo, sembra bella. L'automobile era un lusso, la carne un'eccezione sulla tavola della gente modesta. C'erano gli abiti rivoltati e la bicicletta rappresentava per gli adolescenti (quelli di oggi si emozionano solo per la Porsche) uno stupendo regalo natalizio. La Fiera era nata nella Italietta, che poi tanto etta non era vista la sua immaginazione e la sua creatività.
Ma, nel suo primo percorso, andò in parallelo col regime fascista. Mentre l'istituzione Fiera cresceva, il fascismo stava sullo sfondo, presente nelle cerimonie ufficiali (con sfoggio di funebre orbace) ma non incombente. La Fiera dei Milanesi prescindeva totalmente dalla politica e, in buona sostanza, anche dalla propaganda. Era l'incontro dei Milanesi con chi veniva da fuori, era testimonianza della vitalità di Milano. Che la Seconda guerra mondiale avrebbe poi crudelmente colpito, Fiera inclusa, come ben racconta Raffaello Barbaresi. E, dietro queste tragiche quinte, il vuoto. L'Italia pagava così il dissennato intervento nel conflitto e il tracotante bellicismo mussoliniano. Ma la tempesta di distruzione e di morte che si abbatté su Milano nell'agosto del 1943 fu insieme inutile e iniqua, perché il Duce era già stato rimosso e Badoglio anelava palesemente alla resa. Gli automatismi e l'ottusità militare agirono brutalmente al di fuori di ogni logica. Una catastrofe immane dunque, ampliata e aggravata dalla sanguinosa guerra civile che contrappose i partigiani agli occupanti tedeschi e alle milizie della Repubblica di Salò. Nonostante tutto, Milano risorse e risorse anche la Fiera devastata. Nelle resurrezioni, antiche e moderne, Milano è sempre stata impareggiabile.
Sempre rinasceva e non è un caso che i suoi più grandi e celebri magazzini fossero stati dannunziamente ribattezzati, dopo un incendio, «La Rinascente». Risorsero gli edifici, grazie a imprenditori audaci, a bravi architetti e a quei magut - giustamente esaltati da Barbaresi - vero e proprio orgoglio cittadino: soldati del lavoro manuale in un'Italia che a quel lavoro tributava, a parole, omaggi appassionati ma che in realtà sempre più lo rifiutava. Un rifiuto di cui è dolorosa testimonianza il declino dell'artigianato, gloria cittadina (con gli spadari, gli speronari e gli orefici di secoli lontani) e gloria nazionale. L'Italia era profondamente cambiata, con la Repubblica e la democrazia dopo la Monarchia e il fascismo. Ma quasi ancor più forte, di questa pur forte mutazione istituzionale, fu in un volgere di tempo relativamente breve la mutazione della società e del costume. L'Italia proletaria del Pascoli, dove i contadini erano la maggioranza, si trasformava in un moderno Paese industriale. E questo Mussolini non l'aveva intuito, insistendo sulla sua concezione di un'Italia rurale, ricca di braccia e povera di terra, alla quale occorresse appunto altra terra. Il primo dopoguerra - l'età del miracolo - fu mirabile e irripetibile. Perché, pur nelle sue contraddizioni, nelle sue ingiustizie e nelle sue ereditate miserie, l'Italia di allora aveva una vitalità prodigiosa e, soprattutto, una caratteristica che manca all'Italia di oggi: la fiducia e la speranza. Non c'era forse anche stata una canzone a celebrare Milano come Stramilano: «Montemerlo si confonde col Pincio e il Naviglio col Po»? Nell'Italia del miracolo, della quale la Fiera fu uno dei maggiori simboli, era salda nei più la convinzione che l'oggi fosse migliore dell'ieri e che il domani sarebbe stato migliore dell'oggi. In effetti era proprio così.
Con un processo del quale nemmeno noi ne avevamo avvertito l'importanza, l'Italia che aveva avuto il problema dell'emigrazione e dell'eccessiva natalità, e che aveva mandato i suoi figli a cercar fortuna per ogni dove, divenne l'Italia col problema dell'immigrazione extracomunitaria e della mancanza di nascite. Più ricca e più dubbiosa e poi - parlo di adesso - attanagliata dall'angoscia che domani sarà peggio, e dopodomani peggio ancora. Insieme all'Italia dovette cambiare anche la Fiera. La sua genericità accogliente, il suo voler essere insieme un grande avvenimento mercantile e una festosa kermesse popolare, non poteva reggere a uno sviluppo che aveva tra i suoi dogmi la specializzazione. Certo, ci fu nella Fiera - e, con il suo scrupolo di narratore, Barbaresi non lo tace - una fase di declino e dì incertezza. La Milano di Letizia Moratti e la nuova Fiera di Luigi Roth, avveniristica e colossale come hanno da essere queste imprese nella competizione internazionale, vogliono reagire con i fatti alla sensazione diffusa che l'economia di mercato langue, che l'iniziativa non abbia più motivo né possibilità di affermarsi, che un autunno di tristezza stia calando sul mondo sviluppato, sulla sua filosofia di vita, sulla sua cultura del bello e del nuovo. L'Expo del 2015 sarà il terminale provvisorio di questa sfida, che è epocale.
Altre sfide mi pare che Milano le abbia sofferte: penso a quella con Barcellona (che in Spagna ha il ruolo di Milano), donde le polemiche con «Madrid ladrona» e che, a mio avviso, ha superato l'adeguamento al nuovo in modo brillante. Milano deve rifarsi. Io sono milanese - nato a Crema ma portato a Milano a un anno di età - e sento fortemente l'orgoglio di esserlo.

Milano ha messo al vento la sua vela, quella di Massimiliano Fuksas, e raggiungerà le mete che si prefigge: nello stile dei marinai, anche se di terraferma, o dei magut che non si arrendono mai.

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