L’eterna parabola di Oscar ex divoratore dei comunisti risorto per insultare Silvio

MORALIZZATORE Un giorno vide una signora a spalle nude e la insultò: «Lei è una donna disonesta». Il padre di lei lo sfidò a duello, ma lui scappò

Tra i meriti che il Cav potrà far valere il Giorno del Giudizio, c’è quello di avere regalato una seconda giovinezza a Oscar Luigi Scalfaro. A 90 anni, grazie a un galvanico odio per Berlusconi, Oscar è infatti la quintessenza dell’arzillità. Oggi, senza neanche il bastone, sale sul palco per arringare le folle del Pd e stigmatizzare il governo sul caso Englaro. Si prenderà l’applauso di ex comunisti e affini come ormai gli capita da quattordici anni. Esattamente dal giorno in cui il plutocrate di Arcore ha messo in soffitta i politici di vecchia scuola, dei quali il Nostro è il numero uno, per età, cumulo di poltrone e spocchia.
In questa ideale classifica gerontocratica, gli unici rivali sono Giulio Andreotti ed Emilio Colombo, anch’essi senatori a vita. Ma a parte la comune democristianità e i natali a scala – Oscar, 1918; Giulio, 1919; Emilio, 1920 – niente altro li affratella. Anzi, per dirla tutta, si sono sempre cordialmente detestati.
A Scalfaro, che è un moralista di tre cotte, non sono mai piaciuti i vizi privati di Colombo. E la loro rivalità si ferma qui. Con Andreotti invece la lista dei dissidi è lunga. Oscar non lo sopporta dai tempi di Alcide De Gasperi, quando entrambi se ne contendevano le grazie. Giulio, più furbo, è riuscito ad accreditarsi pubblicamente come il beniamino. Ma Oscar ha sempre rabbiosamente rivendicato la propria prevalenza negli affetti alcidei. La questione, che non interessa nessuno salvo loro, resta aperta.
L’altra grande differenza tra i due è l’atteggiamento verso il Pci. Andreotti, possibilista e aperto al punto da inaugurare con Enrico Berlinguer il compromesso storico del 1978. Scalfaro, invece, chiuso e ostile. Fu, per decenni, il dc più anticomunista che ci fosse. Anche più del leggendario ministro dell’Interno, Mario Scelba, di cui – non a caso – Oscar era il braccio destro ai tempi degli scontri di piazza tra attivisti e Celere. Battaglie cruente che si placavano solo a notte inoltrata. Ma mentre tutti andavano a letto spossati, il Nostro vegliava ammonendo: «I comunisti restano comunisti, anche quando sono in pigiama».
Tuttavia la grande differenza tra i tre, è la religiosità. Tiepida quella di Colombo, scenografica quella di Andreotti – messa all’alba ginocchioni, grandi inciuci vaticani, ecc. –, fervida e giulebbosa in Oscar Luigi.
Scalfaro è un superdevoto della Madonna. Più volte il giorno si chiude nella stanza a luci spente e chiacchiera con la Vergine. La invoca con soavi epiteti che ha raccolto in un libro molto diffuso nelle parrocchie. «La Mamma, la Padrona, la Splendidissima, la Madre del Bell’Amore, la Castellana d’Italia, la Corredentrice, l’Ancilla». Nella stessa opera ha consigliato l’atteggiamento da tenere quando la Castellana appare al termine della novena. «Bisogna avere un sereno, dolcissimo, amoroso abbandono». Un’altra devozione scalfariana è Maria Maddalena. In un suo best seller diffuso tra le Clarisse dice di lei: «Mi ha sempre colpito questa donna impastata di amore. Attendo di incontrarla». Infine, dopo ore trascorse nei colloqui arcani, Oscar riflette su se stesso e conclude: «Sono un broccolo, ma è meglio essere un broccolo nei campi del Signore che un fiore piantato fuori dal campo».
Ora, come un uomo di questa pasta cherubina possa oggi criticare il governo per avere cercato di interrompere il «protocollo» di Eluana Englaro, può apparire un mistero. Ma non lo è più se analizziamo due episodi che illuminano sul modo tutto suo che Scalfaro ha di considerare la morte.
Nato a Novara, figlio di un ferroviere calabrese (ma discendente di baroni proclamati tali da Gioacchino Murat) e di una piemontese di antico lignaggio, Oscar ha esordito come giudice nella Rsi nel 1943 a 25 anni. Dopo avere applicato la giustizia mussoliniana durante la guerra, fece il salto della quaglia con la Liberazione. Attaccandosi alla greppia del vincitore, fu pm nei tribunali per i crimini fascisti. Chiese e ottenne la pena di morte contro tutte le sue convinzioni religiose. Il caso più noto e accertato è quello di Salvatore Zurlo, un fascistone novarese accusato di omicidi, squadrismo, ecc. Al termine dell’arringa il giovane pm, disse: «Chiedo per l’imputato la grave pena». Intendeva che fosse fucilato, ma – già allora politicamente corretto – non osava dirlo esplicitamente. Fosse stato per il devoto della Corredentrice, il fascista doveva dunque tirare le cuoia. Ma, più clemente di lui, arrivò Togliatti che proclamò l’amnistia. Zurlo se la cavò con sei anni di galera. È il primo episodio.
Nel frattempo il Nostro, presidente diocesano dell’Azione cattolica con seguito tra preti e monache, era stato eletto alla Costituente nel 1946. Nello stesso anno rimase vedovo. La moglie, Mariannuzza, morì a vent’anni dopo avere dato alla luce una bimba, Gianna Rosa. Il parto si era subito presentato difficile. L’ostetrico disse a Oscar: «C’è il rischio di dovere scegliere tra sua moglie e il bimbo» (all’epoca il sesso restava ignoto fino all’ultimo). Il marito rispose: «Non farò mai nulla che impedisca al bimbo di nascere». Ossia, prima la vita del bebè, poi quella della madre. In linea con la morale cattolica, ma in contrasto con l’amore maritale. E questo è il secondo episodio del rapporto Scalfaro-morte.
In realtà, i fatti si svolsero poi così. Il parto andò bene, ma Mariannuzza morì 17 giorni dopo per un embolo. Il futuro inquilino del Quirinale, ottenne di cambiare il nome alla bambina. Maria Rosa divenne Marianna, in onore della mamma. È l’unigenita di Oscar di cui tutti apprezzammo la simbiosi col padre negli anni del settennato.
Dopo il lutto, il Nostro si buttò a capofitto nella carriera politica. Quando Scelba divenne premier, fu suo sottosegretario con delega allo spettacolo. Emanò un profluvio di circolari vietando sulle scene nudi, scollature e altri azzardi. Curzio Malaparte commentò: «A giudicare dai lamenti e dalle minacce... si direbbe che l’on. Scalfaro si consideri l’unico uomo morale in questa, a parer suo, immoralissima Italia».
Applicando alla lettera il giudizio malapartiano, Oscar si illustrò in una storica sceneggiata. Un giorno di luglio era in un ristorante di Via della Vite, due passi dal Parlamento. Si accorse che una signora, seduta al tavolo vicino con amici, indossava un vestito estivo con le spalle nude. Le si avvicinò apostrofandola: «È uno schifo. Una cosa abominevole. Lei è una donna disonesta. Le ordino di rimettere il bolerino». Pareva pazzo, ma fu preso sul serio. La signora, Edith Mingoni Toussan, 30 anni, si offese e suo padre, un ufficiale, sfidò Scalfaro a duello. I giornali ci inzupparono il pane e avrebbero voluto il sangue. Ma Scalfaro replicò allo sfidante: «Quando una persona seria (lui, ndr), riceva una comunicazione poco seria, non la prende in considerazione». Insomma, a incrociare le lame non ci pensava proprio. Il più sdegnato per questa prudenza da abatino fu il principe de Curtis, in arte Totò. In una lettera disgustata scrisse al deputato: «Le persone alle quali il sentimento della responsabilità cavalleresca è ignoto, abbiano almeno il pudore di sottrarsi al giudizio degli uomini ai quali il coraggio dice ancora qualcosa». Era un chiaro invito a spararsi. L’interpretazione corrente fu però che doveva solo sparire. Comunque, non fece né l’uno né l’altro. E oggi sale sul palco per fare la morale agli altri.
Più volte ministro negli anni ’70 e ’80, Oscar Luigi ha sempre avuto un grandissimo seguito conventuale, tra badesse, novizie, ecc. Tanto che un giorno, stupito, il cardinale Siri esclamò: «Nessun cardinale controlla tante suore come quest’uomo». Proprio a causa di queste elettrici predilette il Nostro, ormai presidente della Repubblica, sbatté malamente il muso. Ma prima di riuscire a salire sul Colle che era occupato da Cossiga, dovette sgombrarsi la strada. Divenne un violento antagonista dell’ex sardo muto che, per problemi ciclotimici, si era trasformato in forsennato esternatore. Ogni due per tre diceva: «Quando Cossiga andrà a casa, sarà sempre troppo tardi». Finché, all’ennesima, sbottò elegantemente: «Qui non siamo nemmeno alla frutta, ma alla grappa».
Liberata la poltrona dall’altro, ci mise il proprio fondo schiena. Poco dopo scoppiò lo scandalo dei fondi riservati: cento milioni al mese in nero che Scalfaro aveva speso senza rendiconto. Seguì il celeberrimo, «non ci sto», a reti unificate. Un’inchiesta della magistratura romana fu insabbiata con un rito da impero babilonese dalla stessa Procura (imbroglio denunciato da Francesco Misiani, uno dei pm, ndr). Tra le scuse che Oscar ideò per giustificare la sparizione dei fondi, quella di averli versati a suore di clausura nell’Aretino. Un’interpretazione personale della propria devozione alla Castellana d’Italia.
Questa disavventura coincise con l’ingresso del Cav in politica. Con lo spavento per l’affare dei fondi, la bile di Scalfaro cominciò a entrare in subbuglio. Con la comparsa del plutocrate, travasò.
Il resto è storia recente. Pur di dare addosso al Cav si è schierato con quelli che aveva sempre temuto e detestato.

Occhetto, D’Alema, girotondini, no global. Perfino le femministe con le dita alzate nel segno del potere donnesco. Scambiandole forse per la Maddalena dei suoi cantici celesti che aveva ansiosamente atteso di incontrare.

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