Cultura e Spettacoli

«L’ideologia nuoce al cinema Racconto un amore alla Fiat»

da Roma

Doveva intitolarsi La signorina Fiat, ma s’è preferito trasformare il celebre acronimo in F, anzi Effe. «Perché suona più misterioso, più allusivo, meno dichiarato», spiega la regista Wilma Labate, quella di La mia generazione, controverso film del 1996 sui temi del post-terrorismo, della sconfitta politica, della dignità personale. Dunque La signorina Effe, cioè una storia ambientata a Torino, in fabbrica e fuori, nei mesi cruciali che avrebbero portato alla cosiddetta marcia dei 40mila, alla rivolta dei quadri della Fiat, alla sconfitta del sindacato operaio dopo un mese di scioperi. Primo ciak a maggio, producono Biancafilm e Raicinema con l'aiuto di un Fondo di garanzia ministeriale, nei ruoli principali Valeria Solarino, Filippo Timi, Sabrina Impacciatore, Fabrizio Gifuni e Fausto Paravidino.
Argomento piuttosto rischioso. Gli operai al cinema non tirano più. Lontani i tempi di Romanzo popolare o di Mimì metallurgico ferito nell'onore. Di recente ci ha provato Riccardo Milani, con Il posto dell'anima, a riproporre una lotta sindacale in chiave di commedia umana: non ha funzionato. E Guido Rossa che sfidò le Brigate rosse di Beppe Ferrara sta passando i suoi guai. Eppure Wilma Labate, cineasta con pedigree tutto a sinistra, è ottimista. Dice che la Fiat ribollente di quei giorni, stretta tra mobilitazione operaia e ristrutturazione industriale, è solo «uno sfondo, un’ambientazione interessante, inconsueta». Aggiunge: «Io non mi schiero con nessuna teoria. Giuro che non metterò un goccio di ideologia, farebbe solo male al film». Certo, concede, la marcia dei quadri, favorita da Romiti ma frutto anche di una rabbia spontanea che scompaginò i piani sindacali, «fu un grande evento sociale, segnò l’emergere dei cosiddetti colletti bianchi, l’avvento della mobilità, però a me interessa raccontare una straordinaria storia d’amore tra due trentenni, un rapporto appassionante e teso».
I due sono, appunto, Valeria Solarino e Filippo Timi: lei avvenente impiegata di origine meridionale, brava all’università, prossima a una promozione; lui fiero metalmeccanico salito dall’Umbria, generoso e sindacalizzato. Si scoprono, si vogliono, si amano, ma il contesto non li aiuta: anche perché la giovane donna, cresciuta nel culto degli Agnelli come il padre operaio, è sentimentalmente legata a un giovane dirigente aziendale, che reagirà male, vendicandosi, mentre la situazione all’interno della fabbrica precipita.
Lo spunto del film viene da un documentario di Giovanna Boursier, intitolato proprio La signorina Fiat. Solo che lì si componeva il ritratto di un’impiegata dei primi anni Novanta, stretta tra orgoglio aziendale e paura di perdere il posto. «Nello sviluppare la vicenda, retrodatandola al 1980, abbiamo cambiato tutto, lasciando però intatto il senso di appartenenza, l’identificazione assoluta con l’azienda», scandisce la regista. «A scanso di equivoci, io sono felice che la Fiat sia in ripresa, aspetto con trepidazione la nuova 500, non fosse altro perché ho imparato a guidare con la vecchia. Mi pare importante che il management abbia ricominciato a puntare sul prodotto invece che sulla finanza. Ma, ripeto, io parto da un amore, è quella cosa lì che voglio raccontare. La lotta di classe, al cinema, non mi appassiona più di tanto. Anche perché se metti il Tema con la maiuscola davanti alle vicende umane rischi di fare una porcheria».
Il film, da girare tra Torino e Roma (per gli interni), sfodera un budget contenuto, attorno ai 3 milioni di euro. «Diciamo pure che è un film povero. Dobbiamo ricostruire l’aria del tempo, cioè vestiti, acconciature, ambienti, automobili. A suo modo è cinema in costume, tutto è cambiato dagli anni Settanta/Ottanta a oggi», riconosce Wilma Labate. Chiediamo: si vedrà la famosa marcia in giacca e cravatta del 25 ottobre 1980? «No, sarà evocata, non ricostruita. Anche se avessi il doppio o il triplo dei soldi non mi azzarderei. Quando mai s’è visto un bel corteo al cinema? Suona sempre tutto falso, fasullo. Sarebbe un imperdonabile errore di stile».

In effetti è proprio così.

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