Alessandro Massobrio
Con Giovanni Grasso mi è capitato qualcosa di simile a quanto avviene nelle fiabe - quelle di Charles Perrault, per esempio - in cui una cosa piccola conduce ad una più grande. Un po' come nel caso di Pollicino, che seguendo le briciole di pane, disseminate da lui stesso lungo il sentiero del bosco, tornò alla casa dei suoi genitori. E pazienza se Pollicino appartiene alla famiglia dei Grimm e con Perrault ha poco o niente a che fare. Il grande inventore di fiabe del tempo del Re Sole mi è rimasto impresso nel cuore a partire dal momento in cui Giovanni Grasso mi ha mostrato le deliziose illustrazioni che quelle fiabe gli avevano ispirato e che rendevano, per così dire, ancora più fatati i racconti di Perrault.
Ma procediamo con ordine, ovvero da quella cosa piccina di cui si parlava all'inizio. Questa cosa sarebbe poi un libretto di ben dieci pagine, a firma Giovanni Grasso, stampato dalle Edizioni del Delfino Moro di Albenga, sotto l'inquietante titolo di Appunti per una minuscola storia passata, presente e futura di Genova e dei genovesi. Sul fronte di copertina un volto di Mazzini, funereo e incavolato come sempre, con contorno di grifoni della Superba, le cui code - chi mai l'avrebbe immaginato in tanto spolvero di linguaggio araldico? - s'intrecciano e s'intricano sino a dar vita alla vecchia falce ed al vecchio martello di marxiana memoria. Sul retro, idem con patate. Solo che al posto del volto di Mazzini, il misterioso illustratore aveva posto l'effigie di Giuseppe Garibaldi. Tale e quale ce lo tramandano le cronache di Caprera.
E questo solo come antipasto. Chi poi avesse avuto animo di procedere più innanzi, si sarebbe trovato sottoposto ad una requisitoria di forte sapore controrivoluzionario contro Genova e la sua classe politica. Redatta però con quello stile leggero e sognante che solo chi racconta fiabe (o le illustra) è capace di fare. In breve, esordiva Giovanni Grasso, «a Genova il suffisso sta in testa a ogni partito e a ogni aggregazione di potere». Accade perciò che a partire dal XVIII secolo, il partito filo-francese abbia generato quello filo-illuminista, padre a sua volta di quello filo-giacobino. Quest'ultimo, sposatosi con la setta filo-giansenista, diede i natali al partito filo-repubblicano, dal quale nacque il potentissimo partito filo-massonico, legittimo genitore dei divini Mazzini e Garibaldi.
Insomma, di filo in filo, come un tessitore di genealogie bibliche, Giovanni Grasso discende sino ai giorni nostri, dove si imbatte in un filo che non sembra per nulla appeso ad un filo. Anzi, insediatosi a Genova, vita natural durante, il partito filo-comunista si è innervato talmente nella vita pubblica che neppure il ritorno dal cielo, tra tuoni e fulmini, di Nostro Signore sarebbe in grado di scuoterlo dalle sue posizioni.
Anche perché tutta una serie di «ultimi», dall'ultimo Garrone all'ultimo Costa, sino all'ultimo Cattaneo, all'ultimo Romanengo e all'ultimo Parodi, compreso - s'intende - l'ultimo presidente della Cassa di Risparmio, di fronte al Cristo giudice non si turberebbe affatto. Anzi, in buon genovese, ciascuno inviterebbe gli altri manaman a non farsi vedere, perché quel tipo nessuno lo conosce e dunque
meglio evitare frequentazioni pericolose. Tanto più - concluderebbe l'arcivescovo - che la teologia conciliare e postconciliare a questo proposito deve ancora esprimere un motivato parere
Ce n'era e ce n'è in abbondanza, mi sembra, per scovare questo autore misterioso e così, dopo faticosissime ricerche e pedinamenti, mi sono ritrovato in un bello studio di piazza San Matteo, dove Giovanni Grasso e sua nipote Chiara, che ha gli occhi azzurri e nutre una smisurata passione per le stampe degli impressionisti francesi, mi hanno introdotto in un mondo sconosciuto. Fatto di buone maniere e di colori antichi. Il mondo della Genova di una volta, in cui il filo del partito filo-comunista forse non è stato ancora inoculato e dunque nessuna epidemia di manaman si profila all'orizzonte.
Professor Grasso, gli altri la considerano uno dei più grandi illustratori italiani. Ma lei personalmente come si definisce?
«A questo punto sono un po' confuso. Non saprei esattamente rispondere, perché faccio il pittore, faccio l'illustratore, mi occupo di incisioni antiche e ogni tanto mi coglie la follia di scrivere qualche cosetta».
Ma la sua vocazione di illustratore quando è nata?
«Io sono nato pittore, poi, molti anni fa, nel 1975, dalla Olivetti mi venne commissionata l'illustrazione del Piccolo principe di Saint Exupery. Qualche tempo dopo, nel 1993, Silvio Berlusconi mi ha affidato, per la casa editrice che porta il suo nome, Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carrol e da allora con questa storia non ho più quietato. Naturalmente io illustro libri molto particolari, libri dalla tiratura limitatissima, che si vendono a cifre a dir poco stratosferiche. A mille, millecinquecento euro la copia. Il mio editore si chiama Giuseppe Zanasi, un mecenate che non bada a spese pur di possedere qualcosa di molto chic, di molto elitario, che solo pochissimi, diciamo i classici quattro gatti si possono permettere il lusso di possedere
».
E così dicendo, mi fa scorrere sotto gli occhi immagini incredibilmente delicate di fanciulli, di animali favolosi, di orchi. A punta secca o litografati. Immersi in atmosfere turchine o lievemente violacee, dalle quali sembra provenire l'eterno richiamo delle sirene. Quello che alle orecchie di Ulisse suonava come un «Seguici!» che aveva la modulazione della risacca marina.
E adesso a che cosa sta lavorando?
«All'ultimo canto del Paradiso di Dante. Saranno trenta copie, ma niente stampa. Le illustrazioni le farò direttamente a mano su ciascun esemplare. Un lavoro che mi porterà via come minimo tre mesi».
Senta, professor Grasso, qual è il suo credo pittorico?
«Se devo esprimermi in maniera assolutamente brutale, le dirò che per me gli ultimi pittori degni di questo nome stati i Tiepolo. Dopo non ho visto altro che paciughi. Con la fine del Settecento è finito un mondo. Sono tramontate le certezze dell'Occidente, quelle che venivano dalla Grecia, da Roma, dal cattolicesimo. È tramontata la centralità della persona umana. È scesa la notte. Io porto avanti una battaglia di retroguardia, che è giusto combattere ma che francamente è senza prospettive».
Torniamo alla sua Minuscola storia di Genova. Che cosa l'ha spinta ad entrare in polemica con l'establishment della nostra città?
«Io sono un genovese. La mia famiglia, quella che mi piace chiamare la mia tribù, era divisa in due blocchi: da parte di mio padre erano moderati, da quella di mia madre repubblicani e massoni. Qualcuno poi è diventato anarchico, mangiapreti da morire. Qualche altro comunista e naturalmente mangiapreti da morire. Il fatto che all'età di sette, otto anni io abbia cominciato a costruire in casa altarini alla Madonna ha provocato uno scandalo familiare incredibile. Non potevano credere che tra tante persone all'avanguardia, intelligenti e di idee aperte - la gente di sinistra ha sempre questa incredibile presunzione - ci potesse essere una pecora nera. Ecco, a me la Genova attuale ricorda tanto quei miei parenti di una volta. Si tratta di una cultura totalizzante che comprime e soffoca ogni dissenso. Persone come il sindaco Pertusio ci sono certamente state, ma hanno costituito soltanto una parentesi. Siamo dentro ad un acquario rosso ma vi siamo talmente immersi che ormai neppure ce ne rendiamo conto».
Nel suo libello, però, professor Grasso, lei polemizza in chiusura anche con l'arcivescovo.
«Non intendevo alludere a Monsignor Bertone, per carità. Il mio obiettivo era semmai l'eredità del Concilio, un Concilio che in eredità ci ha lasciato un seminario vuoto. Si tratta di un segno, un tragico segno di fallimento. Io, vede, sono rimasto al Cardinale Siri e a Monsignor Noli, un grande prete - ironico, simpatico, colto, ma molto umano - che fu mio collega al liceo artistico e guida sulla strada della fede.
Ecco, come Pollicino lungo i sentieri del bosco, da una cosa piccola sono arrivato ad una grande. Ho conosciuto un autentico artista nel cuore di una città che preferisce dimenticarlo.
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