MilanoQuestione di mesi. Ma, al più tardi in primavera, la moschea milanese di viale Jenner dovrà trovarsi un altro imam. Perché Abu Imad, il predicatore egiziano che da quasi quindici anni governa la comunità islamica milanese, e che ieri ha guidato la grande cerimonia finale del Ramadan, si troverà di fronte a una scelta secca: sparire dalla circolazione o trasferirsi per qualche anno a San Vittore. Perché, se la Cassazione non cancellerà tutto, diventerà esecutiva la condanna a 3 anni e 8 mesi per terrorismo pronunciata a carico di Abu Imad nel dicembre del 2007.
Tutto lascia immaginare che Abu Imad non scapperà. Un po perché a casa sua non può tornare: in Egitto lui e il suo collega Abu Omar, limam rapito dalla Cia nel 2003, non sono visti di buon occhio. Lui, Abu Imad, in particolare, è stato accusato anni fa - quando non era ancora a capo della moschea - dalla Procura di Milano di fare parte di un gruppo estremisti che raccoglieva soldi taglieggiando i commercianti arabi in Italia, e che investiva i fondi in vari progetti terroristici: tra cui quello di fare la pelle al presidente Hosni Mubarak. Da quella imputazione, per cui nel 1995 era rimasto sei mesi a San Vittore, Abu Imad venne prosciolto per prescrizione. Ma in Egitto, dove sono meno attenti ai dettagli del codice, rischia di non venire ben accolto.
Il secondo motivo per cui ad Abu Imad non conviene scappare è che il trasloco a San Vittore non lo costringerà affatto ad interrompere la sua predicazione. Da quando la popolazione islamica è divenuta la maggioranza relativa del carcere milanese, il proselitismo tra i detenuti è stato uno degli impegni più intensi dei capi di viale Jenner. Gli imam vengono eletti dai detenuti, ma su indicazione della comunità esterna. E se dovesse davvero finire in carcere, Abu Imad manterrebbe la sua leadership quasi intatta, e forse rafforzata.
Ma di che tipo di leadership si tratta? Abu Imad - alias Arman Ahmed El Hissini Helmy - è un teologo o un terrorista, un predicatore dellIslam o della Jihad, la guerra santa? Il suo curriculum giudiziario autorizza a dire che è entrambe le cose. O, meglio, che negli anni trascorsi a Milano ha incarnato entrambi i ruoli. Prima militante terrorista. Poi uomo di confine, a cavallo tra le diverse anime dellislam milanese, senza più esporsi in prima persona ma tollerando la presenza degli integralisti in viale Jenner.
Quando viene arrestato per la prima volta, il 26 giugno 1995, il suo nome non finisce neanche sui giornali: nella retata della Digos brillano altri nomi, primo tra tutti Anwar Shaban, limam dellepoca, che - a conferma che linchiesta aveva visto giusto - si arruolerà poi come mujaheddin e morirà combattendo in Bosnia. Abu Imad se la cava con la prescrizione, e prende il posto di Shaban al vertice della moschea.
Ma la linea non cambia: dietro la facciata culturale e religiosa, sotto la guida di Abu Imad la comunità milanese diventa uno dei punti di riferimento più sicuri per la galassia del terrorismo islamico internazionale. In viale Jenner, racconterà il pentito Tilli Lazar, molti fedeli islamici - spesso scelti tra la parte più diseredata degli immigrati in Italia - vengono convertiti alla Guerra Santa, istruiti, inviati ai campi di Al Qaida. Abu Imad in prima persona non si espone mai. Ma chiunque abbia avuto occasione di entrare in viale Jenner sa che - dal suo ufficio apparentemente defilato, allinizio di un piccolo corridoio - limam controlla tutto. Conosce uno per uno gli emissari del terrore, gli uomini che sono in viale Jenner non per pregare ma per arruolare. Sa chi è a piazzare in vendita i dvd con le prediche di Al Qaida. E non si limita a consentire. Una intercettazione tra due estremisti, quella decisiva nel farlo condannare, dice che è lui - il quieto, ieratico predicatore - a tirare le fila.
Poi, progressivamente, la linea di Abu Imad cambia, si attenua. Gli estremisti sembrano scaricati.
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