L’impero di Lucianone

L’impero di Lucianone

Tony Damascelli

Alla fermata Atac di San Pietro, la circolare destra scaricava suore e preti, fedeli e pellegrini. Luciano Gaucci dava un’occhiata allo specchietto, richiudeva le porte e ripartiva per un altro giro. Era la sua esistenza ordinaria, da avanti c’è posto, prima che venisse fuori la folle vita con i posti tutti da lui stesso occupati.
Suo padre era un uomo di campo, dice lui «imprenditore agricolo». In verità teneva mucche e cavalli, articolo questo destinato a diventare protagonista nella rutilante carriera del Nostro, e al mercato generale vendeva gli ortaggi e altro del campo di cui sopra. Luciano non era grande e grosso e grasso come le ultime immagini di repertorio lo hanno consegnato ai «poster» ma già aveva il fiuto di uno che era nato alla vigilia della guerra, anno Trentasei, quando Roma era capoccia e si viveva del giusto. Chiamato al servizio militare capì che non era ancora il momento di fare il marmittone, approfittò del fatto che il padre aveva appena comprato una schiera di villette a Cinecittà, con annesso luogo di ristoro, al secolo trattoria senza nemmeno lo straccio di un’insegna, e si offrì come tutto fare, servizio ai tavoli e scopa. Quest’ultimo articolo, come il cavallo succitato, sarebbe servito alla svolta epocale. Infatti correndo con gli anni Luciano Gaucci andò militare a Reggio Emilia, ovviamente in cavalleria, trovò impiego come autista all’Atac, si iscrisse al concorso interno e passò dall’autobus alla scrivania di segretario mentre Roma fumava di risveglio post bellico e lui, a bordo di una Taunus faceva il gallo cedrone per strada, tra l’altro facendosi notare per il colore della vettura: panna e arancione.
Secondo i gaucciologi più bizzarri er sor Luciano incominciò a frequentare ippodromi, scuderie e centri di allevamento, una mancia là e un’altra qua e allora venne fuori il primo cavallino e poi un altro e ancora. Però doveva fare altro, la scopa, ah la scopa della trattoria. Perché non mettere su una bella ditta di pulizie? A Roma come la chiamo? La Milanese, per rendere l’idea di una che lavora. Stando alle sue parole: «Ai miei dipendenti concedevo tutto ma pretendevo. Mi fai la guerra? E io ti caccio, quando mi facevano scioperi ingiusti io gliela facevo pagare. Una volta sono arrivato a licenziare trenta persone contemporaneamente. Ho licenziato anche sindacalisti».
La Milanese arrivò a tremila dipendenti, esclusi i licenziati, ovviamente. E Luciano Gaucci, già rotondo di panza e con le gote imporporate capì che quello era il colore, dunque si rammentò della linea 8 e della fermata di San Pietro. Perché non frequentare e fare la riverenza al cardinale Angelini Fiorenzo? E, per la proprietà transitiva, arrivò a Giulio Andreotti. Il potere non logora affatto, né chi ce l’ha, né chi lo cerca e poi, alla fine lo ottiene. Gaucci centra il bersaglio. Evangelisti, Ciarrapico, la Roma che conta e racconta. Gli piace il football e Dino Viola gli offre un posto nel club giallorosso, come vicepresidente in cambio del 13 per cento delle azioni. Poi un giorno alle Capannelle proprio Andreotti gli sussurra: «Prendi la Lazio se no sparisce». «I tifosi me se magnano». L’affare non andò a fine. Ma Gaucci teneva cavalli buoni, White Muzzle, Jeffs Spice, Doctor Devious ma Tony Bin su tutti, che vinse l’Arc de Triomphe, preso per sei milioni rivenduto ai giapponesi per 7 miliardi, capito l’autista dell’Atac. E altri ancora, come le squadre di pallone, il Perugia che, grazie a un supporto della Banca di Roma diventa suo. L’Umbria è dolce, appena oltre il confine, in provincia di Viterbo ci sta il castello di Torre Alfina, Gaucci lo prende e si narra di aragoste e champagne, femmine e piaceri, diurni e notturni. La moglie gli regala due figli, Alessandro e Riccardo ma altre api vanno al miele, per esempio una che viene da Santo Domingo e si chiama Iris che provvede ad altri due eredi, Isabel e Rebecca. Non basta, la porta è aperta, arriva Elisabetta, biondissima, clamorosissima, diventata anche presidentessa della Sambenedettese e poi valletta alla Domenica Sportiva. Insomma Gaucci può anche se sulla sua fedina calcistica c’è l’illecito, la corruzione, un cavallo donato a un arbitro, Senzacqua il cognome: Perugia retrocesso in C1.
Gli agiografi ricordano che Gaucci ha portato in Italia il primo calciatore giapponese, Nakata, il primo coreano, Ahn, il primo iraniano, Rezai, il primo libico, Gheddafi junior, ha messo sulla panchina di una squadra maschile il primo allenatore donna, dico allenatrice è meglio, Carolina Morace. L’importante è farsi notare. Compra la Viterbese, il Catania, la Sambenedettese, tenta di prendersi il Napoli, suggerisce a un suo amico di mettere le mani sull’Ancona che poi fallisce. Gli va l’acqua per l’orto, come si dice a Roma: vince due miliardi e quattrocento milioni al Superenalotto.
Gaucci appare, strilla, scompare, riemerge, mette in circuito i figli, assume, licenzia, si fa fotografare nel villone di Santo Domingo, accanto alla dimora di Antonio Banderas.

Non viaggia più sulla Taunus, a Torre Alfina le luci sono spente, Nakata è emigrato, Tony Bin se ne era andato a fare lo stallone in Giappone e lì, alla fine, giace. E a San Pietro non arriva più la circolare destra.
Tony Damascelli

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