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L’inedito: io, Soldati inviato sul fronte

Il grande autore, celebre per l'ironia, si distinse anche come cronista di guerra. Ecco i suoi reportage inediti usciti dal 1944. Articoli dimenticati scritti sul fronte della linea Gotica

L’inedito: io, Soldati inviato sul fronte

La disciplina. Ecco perché, nello squallido paesaggio di quei monti incombenti, tra le case distrutte, il fango, i calcinacci, e il continuato tuonar delle artiglierie, tanto ci rincuorò veder accorrere, e scattare sull’attenti come a una parata, i nostri salmeristi.
Ora parla il colonnello, che è un vecchio ufficiale di cavalleria. Egli dice di essere molto affezionato ai soldati di questo reparto anche perché ebbe ad allievo, anni fa, nella scuola di equitazione, il loro capitano di adesso. Dice altre cose, cose concrete, umane, senza nessuna retorica. Parla della posta, delle licenze, dei congedi per i più anziani. Parla a voce bassa, sommessa, timida, quasi materna. I soldati lo guardano fissi, e si capisce che un tipo così è quello che ci vuole per loro.

È magro il colonnello, di media statura, quasi calvo. Ha una sciarpa intorno al collo, annodata con involontaria eleganza. Parla con le mani intrecciate davanti al petto; sembra un prete, anzi un padre spirituale. Ed anche il suo accento naturalmente raffinato, e la sua voce stanca e sommessa, hanno qualcosa che va diritto al cuore. Ma ciò che più tocca, in questo encomio dei suoi soldati, è la minuta preoccupazione che non si rifletta su di se stesso; non diventi, neppure per un solo istante, e neppure per una passeggera enfasi del discorso, un’autoesaltazione.

«Tengo particolarmente a voi perché il vostro capitano è stato mio allievo». Fu questo l’unico accenno del colonnello alla propria persona. Come se con termini così convenzionali e quasi mondani, con un’osservazione così grettamente dinastica e inadatta alla psicologia dei semplici soldati, egli volesse appunto, estremo pudore, separare per sempre la propria persona da quella dei soldati e non prendere per sé nemmeno un’ombra dell’elogio ch’egli stava per conferire al loro valore.

- Io non ho altro merito se non quello, casuale, di essere stato maestro d’equitazione del vostro capitano -, ecco che cosa, con parole più chiare ma meno pudiche e meno dignitose, egli avrebbe potuto dire ai suoi soldati.
Per finire, il colonnello vorrebbe lodare i soldati di ciò che essi fanno per l’Italia. Ma, anche adesso, modifica e mortifica il proprio discorso: e anziché lodarli, con parole più umili e profonde li ringrazia.
Che la provvidenza conceda molti di questi ufficiali all’esercito italiano: e l’Italia sarà salva.

Toccati, come me, e più di me, dalle parole del colonnello, furono certo anche i soldati. Perché, finito il discorso, ordinato ancora una volta l’attenti, quando venne finalmente il «rompete le righe», rimasero per qualche istante muti e immobili, come imbarazzati dai propri confusi sentimenti. Ma, ecco: uno che sta in prima fila, uno dai capelli rossi e un gran nasone attraverso la faccia bislacca, tira fuori dalla tasca un pifferetto e, quasi per scrollare l’imbarazzo da sé e dai compagni, lo accosta alle labbra e ne trae una rapida zufolata. Dopodiché, nascose nuovamente il piffero in tasca, e più non lo volle suonare. Ma intanto tutti erano scoppiati a ridere, e fu il vero segnale di rompete le righe.

Volete, adesso che vedrete in giro molti soldati italiani vestiti tali e quali agli alleati, distinguerli da questi a colpo sicuro? Basterà che li fissiate negli occhi. Vedrete i loro occhi, solitamente mesti, accendersi, appena fissati, di arguzia, brillare di pronta intelligenza. Gli occhi degli americani, e in genere degli anglosassoni, popoli più giovani, ridono sempre, indifferentemente, come lo smalto azzurro di una stoviglia. Gli occhi degli italiani hanno invece l’abituale, secolare tristezza dell’esperienza, e ogni volta, nel riso, superano questa esperienza.

Ci mischiamo ai salmeristi, ascoltiamo dall’uno e dall’altro opinioni, racconti, frasi, scherzi. C’è, in tutti, un grande entusiasmo. Sono trattati bene dagli americani, sia materialmente che moralmente. E ciò li conforta non soltanto per sé; ma perché pensano che un ugual trattamento sia riservato anche alla nazione italiana.
Ci sono molti anziani. C’è uno, un sardo, che è sotto alle armi da circa otto anni ininterrottamente. E non me lo dice lamentandosi, ma anzi ridendo, come se parlasse di una bizzarria: qualche cosa come la cartolina illustrata che arriva a destinazione dopo sei o sette lustri. Non nasconde neppure che ne ha basta, di questa vita, e vorrebbe tornare a casa, con il suo regolare congedo a cui ha, ormai, ogni diritto. Egli non ignora che esistono in giro in Italia moltissimi più giovani di lui, che non sono sotto le armi. Egli non ignora che, se volesse, potrebbe benissimo tornare a casa e magari mettere da parte qualche soldo col mercato nero. Ma preferisce fare il suo dovere senza vantarsi e senza lamentarsi. Ebbene, questa franchezza e questa modestia, noi la anteponiamo alla parlantina di certi bellicosi eroi. La patria è grata ai veri eroi; ma ha bisogno soprattutto di cittadini che facciano il proprio dovere.

Parliamo poi col capitano; e sappiamo, infatti, che l’anziano sardo si è sempre dimostrato, e continua in ogni occasione a dimostrarsi, un soldato non soltanto bravo, ma addirittura valoroso.
Visitiamo le stanzucce terrene, vecchie stalle diroccate, dove sono accantonati i salmeristi. Per terra, tra le coperte e la paglia, pacchi di sigarette, gomma da masticare, scatole di carne, biscotti, tutti gli abituali rifornimenti degli americani. I nostri soldati offrono generosamente a noi, e perfino ai loro ufficiali. Accettiamo una gavetta di caffè. Adesso sono loro che interrogano noi. Ci chiedono di Roma, dei partiti, della politica. Rispondiamo, parliamo. Ma a loro, e anche a noi, qui, sembrano cose lontanissime, quasi irreali. C’è il freddo, qui, il fango, questi continui colpi di cannone, e i tedeschi, che a pochi chilometri di qui straziano i nostri fratelli...

Parlando passa il tempo; e quando usciamo dall’accantonamento è scesa la sera. Un plotone di salmeristi, sullo spiazzo, nel fango, sta caricando i muli. È un plotone che ha parecchia strada da fare, per raggiungere le trincee che deve rifornire, e parte prima degli altri.
Anche noi dobbiamo partire. Ma appena saliamo sulla jeep, ci accorgiamo che ha una gomma a terra. Conduciamo la jeep cento metri in là, a un posto americano, dove due autisti procedono subito al cambio della ruota.
In quel momento, uno scoppio, vicinissimo. Ci voltiamo. Il colpo è arrivato a cento metri da noi, sulla collina che è addossata alle case. Mentre ancora guardiamo, ne arriva un altro, questa volta un po’ più vicino.
«Sanno che questa è l’ora che carichiamo i muli» commenta il capitano «e cercano sempre di piazzare qualche tiro».
Intorno, si è fatto il vuoto come per incanto. Ma i soldati del plotone, nel bel mezzo dello spiazzo, hanno continuato il loro lavoro, come se nulla fosse.

E mentre assicurano i basti tirando le cinghie sotto la pancia dei muli, alzano lo sguardo verso di noi e ridono con gli occhi: ridono silenziosi, affettuosi, del nostro passeggero smarrimento.

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