L’infanzia negata secondo Dennis Kelly

La rassegna di drammaturgia inglese «Trend» propone l’ultimo lavoro del drammaturgo britannico dedicata a una situazione sociale di estremo degrado

Temi forti, immagini scioccanti, legami familiari infranti, situazioni sociali di estremo degrado. La drammaturgia inglese contemporanea mostra spudorati segnali di intolleranza per le mostruosità e le violenze che si annidano nel quotidiano, negli angoli più oscuri delle nostre case, dei nostri sentimenti, dei nostri valori primari. Tanto che risulta impossibile sottrarsi alla necessità di riflettere sulla follia di questo mondo sconquassato, sul domani che ci attende. E se pure testi come «Debris/Paté» di Dennis Kelly (in cartellone al Belli nell’ambito della rassegna «Trend» fino al 13) possono colpire per la quantità di lacerazioni ed efferatezze che contengono, questo carico di angosce non è poi così lontano dalla cronaca. L’omicidio del piccolo Tommaso Onofri ne sia un atroce esempio.
Anche nello spettacolo diretto da Pierpaolo Sepe si parla di infanzia negata. Di adolescenza tradita, di bambini ormai adulti che tentano, provano di capire il perché di una vita così vicina agli inferi. E se ne parla con una lingua molto letteraria, quasi romanzesca, puntellata di assonanze metaforiche, di visioni allegoriche e di riferimenti ad un sacro cristologico e martiriologico (basti considerare l’incipit, con il racconto di un padre che si auto-crocefigge sotto gli occhi del figlio) dove il tema del sacrificio e, ancor più, il senso di fatalità pesano come macigni. In scena una coppia di giovani fratelli (Michael e Michelle) intrecciano i loro monologhi, i loro vaneggiamenti, i loro ricordi. Sono vicini nel corpo ma distanti nell’anima. Raggelati in una confessione che li inchioda ad una sedia, pressoché immobili. Raggelato è d’altronde l’intero impianto scenico voluto qui dal regista: un niente svuotato di qualsiasi riferimento fisico e acustico al di là della parola dove i due protagonisti, Max Malatesta e Roberta Rovelli, sembrano corpi sputati dal silenzio, dalle pause, dall’incidibile. La loro storia è, infatti, indicibile, scabrosa, umiliante. Eppure va detta, va condivisa.
Lui (gomma americana in bocca, capelli disordinati, piccoli gesti nervosi e una matura consapevolezza espressiva) ostenta una certa - dolorosa - reattività: il padre alcolista e obeso, quella morte lì sulla croce, una vita familiare assurda, le profferte ambigue di uno zio viscido e laido e poi il corpo «santo» di un bimbo (Patè, appunto) trovato per caso. Lei (sguardo basso, volto coperto dai capelli, voce forse un po’ troppo modulata su un balbettio ripetitivo e non sempre limpido) ha i tremolii della vittima fragile e assente: nata barattando la sua vita con la morte della madre (di nuovo, dunque, il tema del sacrificio) si riappropria poco a poco del suo io di neonata, del suo corpo-feto, come se volesse scongiurare la tragedia, il destino.
Il testo di Kelly (tradotto da Gian Maria Cervo) procede per salti, per lesioni di memoria, per lampi di emozione.

Malgrado a tratti si faccia fatica a seguirlo, questa fatica sembra voluta, spinta, enfatizzata. Fino all’approdo estremo, quando l’arrivo inatteso di Patè sembra annebbiare il dolore: dare ai protagonisti un «prima» di sogno da cui ricominciare.

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