L’infermiera che uccideva in corsia: il pm chiede trent’anni di carcere

La donna non ha retto alla tensione ed è svenuta nell’aula del tribunale. A giorni la sentenza

Anna Savini

da Lecco

Ha avuto una crisi di nervi ed è scoppiata a piangere due volte. Sonya Caleffi, l’infermiera che due anni fa confessò di aver ucciso 5 pazienti all’ospedale di Lecco, non ha retto alla tensione. Era in tribunale a Lecco. Era a una delle udienze dalle quali, nei prossimi giorni, dovrà uscire la sentenza e quindi il suo destino. E se il giudice ascolterà la richiesta del procuratore Anna Maria Delitala il suo destino sarà restare per trent’anni in carcere.
Ben lontana dal peso da quando la chiamavano l’infermiera «secca secca», la Caleffi ha dovuto sentire la ricostruzione degli omicidi dei quali è imputata fatta dal pm Luca Masini. Un salto indietro a quel passato del quale lei, dopo la confessione iniziale, ha sempre faticato a parlare. Una pugnalata nello stomaco la richiesta di condanna: trent’anni di carcere. Più l’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici. E, come se non bastasse, interdizione legale durante l’espiazione della pena e interdizione temporanea per cinque anni dal pubblico servizio di infermiera professionale. Un colpo dietro l’altro anche se, almeno, il numero di omicidi per i quali l’infermiera di Tavernerio (Como) era indagata è diminuito.
L’avevano accusata di aver ucciso dodici pazienti e di aver tentato di farne fuori altri tre. Ora deve rispondere di sei omicidi e due tentati omicidi. Pazienti morti perché Sonya si sentiva messa in disparte e pensava fosse necessario far vedere come fosse brava a gestire le emergenze. Solo che le emergenze le creava lei, iniettando aria nelle vene dei pazienti della Medicina del «Manzoni». Poi, quando la crisi arrivava, Sonya si metteva in un angolo e stava a guardare.
Due perizie sono state fatte su quelle iniezioni d’aria. La prima la scagionava, dicendo che non bastavano quattro o cinque colpi di stantuffo per provocare un’embolia. La seconda però la inchiodava: bastavano sì, quei colpi di siringa, a uccidere pazienti già in fin di vita.
Ma il processo di ieri, a porte chiuse davanti al gip Gian Marco De Vincenti, si è concentrato sui decessi, non sulle perizie. Masini li ha messi uno in fila all’altro, ricostruendo le morti di Cristina Maria, Colomba Elisa Riva, Ferdinando Negri, Renzo Cipelli, Biagio La Rosa, Teresa Lietti e i tentati omicidi di Francesco Ticli e Giuseppe Sacchi. Sonya è scoppiata a piangere proprio in quel momento, interrompendo l’udienza. E poi la seconda volta, durante le arringhe finali. Una crisi di nervi tale da richiedere l’intervento della Croce Rossa e far pensare che la Caleffi dovesse essere portata nello stesso ospedale nel quale aveva lavorato. Alla fine, però, lei si è calmata. Ed è stata riportata a San Vittore, dove è rinchiusa ormai da mesi, ma sempre sotto controllo in infermeria.
È ingrassata tanto da quando sta in carcere, ha tagliato il caschetto, ha lasciato l’ex convivente e ha iniziato a lavorare come centralinista alla Telecom.

Non è stata mai abbandonata dai genitori che la vanno a trovare una volta ogni quindici giorni e può contare sull’aiuto dei legali Claudio Rea e Renato Papa. Ma come ha sempre detto la mamma, che ieri era troppo sconvolta per parlare, «la nostra vita si divide in due. Il prima dell’arresto di Sonya e il dopo».

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