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L’infermiera non ha ucciso i pazienti ricoverati a Como

Per il tribunale di Lecco invece il caso giudiziario resta aperto

L’infermiera non ha ucciso i pazienti ricoverati a Como

Anna Savini

da Como

Sospettavano li avesse uccisi lei. Ora glieli hanno levati dalla coscienza e dalla fedina penale. Diciotto morti in meno per Sonya Caleffi, ma soprattutto la speranza di non dover passare tutta la sua vita in prigione. La procura di Como ha accolto la richiesta dell’accusa. Caso archiviato, almeno per quanto riguarda i pazienti deceduti negli ospedali comaschi dove lei aveva lavorato prima di essere arrestata per le morti al «Manzoni» di Lecco. Non ci sono prove che l’aria in vena uccida, o almeno non nella quantità pari ai 4-5 colpi di stantuffo che l’infermiera con la smania di primeggiare insufflava con la sua siringa nel braccio del malato di turno. Secondo i periti del pm Vittorio Nessi ne serve molta di più per porre fine a una vita. Da qui la richiesta di archiviazione accolta ieri dal gip Valeria Costi.
Gli avvocati di Sonya, Claudio Rea e Renato Papa, avevano iniziato a festeggiare in quell’istante, cambiando strategia difensiva. Non più richiesta di seminfermità mentale, sperando di evitare l’ergastolo, ma possibilità di chiedere addirittura l’assoluzione.
«Anche se Sonya ha confessato di aver usato siringhe piene d’aria per uccidere 4 pazienti all’ospedale di Lecco (più due tentativi falliti), questo non vuol dire che li abbia davvero ammazzati lei - dice Rea -. Lo stesso primario aveva spiegato che si trattava di malati terminali. Per questo, dopo che l’accusa aveva chiesto l’archiviazione, abbiamo chiesto una nuova perizia che spieghi se l’aria in vena uccide o no». Perfino Ugo Fornari, il consulente che aveva definito la Caleffi una serial killer, ha detto che adesso sarebbe forse il caso di rifare la perizia psichiatrica.
«Sonya ha sempre detto di non voler uccidere - hanno ripetuto i genitori dell’infermiera -. Lei voleva solo far vedere quanto fosse brava a darsi da fare quando succedeva qualcosa di grave ai malati. Del resto era talmente imbottita di psicofarmaci, che prendeva in dosi massicce senza seguire i consigli dei medici, che non sapeva neppure lei cosa stesse facendo».
Ora la Caleffi, che ha compiuto 35 anni in carcere, sta meglio, ma non è ancora guarita del tutto. È rinchiusa a San Vittore, sempre in infermeria, ancora sotto psicofarmaci ma questa volta controllati dalla psichiatra. È uscita solo per la prima udienza del processo di Lecco, durante la quale ha detto: «Sì, ricordo di avere iniettato aria ma non ho mai voluto uccidere nessuno».
Sempre afflitta dai suoi disturbi alimentari, ma non più scheletrica come un anno fa quando la arrestarono, Sonya sembra rendersi conto solo ora di quello che ha fatto. Prima cercava di cambiare argomento ogni volta che si parlava dei morti. Almeno ora non dovrà più rispondere alle domande sui decessi dei 18 pazienti all’ospedale Sant’Anna di Como e alla clinica Bellaria di Appiano Gentile, archiviati come morti naturali. Resta da capire cosa successe ai 12 malati morti durante il ricovero a Lecco.
«Vorrei tanto che mia figlia venisse assolta - l’ha difesa la mamma durante l’ultima udienza -.

Ma anche in questo caso è una ragazza che avrà sempre bisogno di cure».

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