L’inflazione si surriscalda ma sui tassi Bce e Fed non cambiano strategie

Rodolfo Parietti

da Milano

Il rincaro del petrolio sta presentando un conto salato ai Paesi industrializzati, sotto forma di una crescita dell’inflazione sempre più evidente, tale da creare tra i consumatori timori legati alla continua perdita di potere d’acquisto e preoccupazioni sui mercati per le eventuali contromosse da parte delle banche centrali. Il fenomeno è ben riassunto dai dati giunti ieri da Eurolandia, dove i prezzi al consumo sono saliti al 2,6% in settembre (erano al 2,2% di agosto) a un livello decisamente superiore al target di riferimento (2%) imposto dalla Bce. Quanto agli Stati Uniti, i prezzi alla produzione sono aumentati il mese scorso dell’1,9%, il rialzo più consistente degli ultimi 15 anni.
Il quadro non è insomma dei più rassicuranti. Nell’ultimo periodo, non a caso, la Bce ha alzato il livello d’attenzione abbandonando il tradizionale linguaggio cauto, a favore di una comunicazione ben più diretta che ha finito anche per alimentare supposizioni su un rialzo dei tassi ben più ravvicinato rispetto alle attese. In una risposta inviata al Parlamento europeo, il presidente dell’Eurotower, Jean-Claude Trichet, è stato chiaro: «Agirei con decisione se la crescita dei prezzi del petrolio si trasmettesse ad altri settori dell’economia, portando a effetti di secondo livello e/o aspettative sull’inflazione in rialzo». Il problema è che nei giorni scorsi la stessa banca centrale si è arresa all’evidenza: anche nel 2006 il carovita resterà sopra il 2 per cento.
Il fenomeno non è dunque transitorio, essendo tra l’altro scarsamente prevedibile con un buon margine d’approssimazione il trend futuro delle quotazioni del greggio. Ciò richiederebbe, appunto, una risposta di politica monetaria adeguata.
Eppure, gli economisti sono convinti che la Bce lascerà ferme le leve dei tassi ancora a lungo. «È vero che da parte della Bce c’è più enfasi sulla dinamica dei prezzi - spiega Antonio Cesarano di Mps Finance -, ma resta inalterata la nostra previsione di una stretta non prima della fine del primo semestre 2006». Secondo Cesarano, è soprattutto la debole domanda interna a condizionare le scelte dell’istituto di Francoforte. Il rischio sarebbe quello di indebolire ulteriormente una ripresa già fiacca, aumentare la disoccupazione e ingenerare sfiducia tra i consumatori.
In parte, la strategia attendista della Bce sarebbe agevolata dal fatto che l’inflazione, se depurata da alimentari ed energia, è all’1,5% annuo, grazie al forte peso dei servizi nel paniere che attenua le spinte provenienti dal petrolio.
Anche negli Stati Uniti è assai verosimile che la Fed continui ad alzare il costo del denaro con scatti di un quarto di punto, in modo da non impattare sulle tasche dei consumatori. Soprattutto di coloro che hanno stipulato mutui con il pagamento della quota capitale differito nel tempo. In caso di una stretta più aggressiva, il costo delle rate rischierebbe di diventare troppo alto e di limitare, quindi, le spese private.

Ciò non toglie che all’interno della Fed resta aperto il dibattito sull’opportunità di introdurre un tetto d’inflazione. Il modello Bce piace peraltro a Ben Bernanke, uno dei candidati a sostituire Greenspan - a fine gennaio 2006 - alla guida dell’istituto.

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