Cultura e Spettacoli

L’ingannevole prestigio delle parole

Non avrebbe deluso le speranze né smentito la fervida «Professione di fede letteraria» riportata in questa pagina (per gentile concessione di Adelphi) il Borges che, pure disconobbe il testo giovanile che la conteneva. La misura della mia speranza (El Tamaño de mi esperanza) l’aveva intitolato pubblicandolo, 27enne, nel 1926. E quel titolo non intendeva assegnare limiti alla «benedetta memoria del futuro»: la speranza, appunto. Nutrita nei confronti della propria terra, nazione e città. E alimentata come stimolo per creare «la poesia e la musica e la pittura e la religione e la metafisica adatte alla grandezza» dell’Argentina e di Buenos Aires.
Ecco, era il Borges più fieramente argentino quello che scriveva allora. Il Borges nazionalista. Un Borges «irritante e geniale», lo definisce Antonio Melis, curatore dell’edizione adelphiana della sua opera, comprendendovi - disobbediente - questo scritto, tradotto da Lucia Lorenzini (150 pp. 16 euro), che dalla propria opera l’autore aveva invece «per sempre bandito».
Ma «per sempre» e «giammai», sapeva Borges, non son concessi agli uomini che come false illusioni. A un’attendibile speranza va assegnata una misura. Da calcolare sullo spazio scarso di un trentennio fino al 1954 in cui, rivedendo la formidabile monografia su Evaristo Carriego, uscita nel 1930 e conservata nel proprio corpus autografo, l’autore annotava di riconoscere in alcuni lavori di quegli anni «il chiaro sintomo di certe eresie nazionaliste che avrebbero più tardi devastato il mondo». Perciò anche le Inquisizioni del 1925 (Adelphi 2001) e El idioma de los argentinos del 1929 sarebbero cadute sotto la mannaia dell’autocensura.
La misura della mia speranza però non è per niente un falso. Forse è perfino riduttivo attribuirlo a un «primo» Borges, come se ce ne fosse un altro. Dimensionarlo su quella fase singolare in cui lo scrittore vide l’inquietante vuoto letterario spalancato nel cuore vivo della sua nazione: «La nostra realtà vitale è grandiosa e la nostra realtà pensata è miserabile», ammetteva. E volle colmare il vasto terreno edificabile aperto nel centro - ovvero nella capitale - dell’Argentina moderna che solo di recente si era andata forgiando sul perimetro urbano di Buenos Aires: stretta tra le due sconfinate immensità del mare e della pampa. Così, metro alla mano, nei saggi raccolti a titolo speranzoso di Misura, Borges si era impegnato a tracciarne il profilo. Definito sulla metrica di «Strofe alla criolla» e sui versi del Fausto di Estanislao de Campo. Sulla distanza presa rispetto «all’altra sponda» - del Rio della Plata, quella uruguayana -, scandita artificiosamente dalle rime, scavata dalle inerzie di idiomi ed aggettivi.
Non è certamente un’espressione di colore «locale».

È una fisionomia unica, inconfondibile, personale: come la storia della vita, la biografia che con l’atto di fede qui enunciato Borges riconosceva quale momento fondamentale, fondante della propria opera e di tutta la poesia.

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