L’Ingegnere tessera numero uno che con la politica cura gli affari

MilanoIl problema è la nobiltà d’animo. Se un imprenditore pianta le tende in Svizzera il pensiero corre malizioso al fisco e alle tasse. Ma nel suo caso, no. Carlo De Benedetti s’indigna e mette in gioco sentimenti profondi: la riconoscenza verso Berna che gli salvò la vita non una ma due volte, nella Seconda guerra mondiale quando le radici ebraiche erano un lasciapassare per l’inferno e poi nella sciagurata stagione del piombo brigatista.
Il curriculum di Carlo De Benedetti dev’essere double face e lui ricorda sempre un lato solo. Lui sta nei salotti, abita nei Grigioni, è l’editore, va da sé illuminato, di Repubblica e l’Espresso, ha in tasca la tessera numero 1 del Partito democratico.
Un gentiluomo. Che ha avuto solo qualche piccola traversia. «Sono sempre stato e continuerò ad essere fisicamente residente in Italia», ha chiarito. Ai tempi dell’Ambrosiano, però non riuscivano a trovarlo. Un dettaglio sfuggito alla sua rocciosa autobiografia. Già nell’87 i legali del Vecchio Banco Ambrosiano avevano chiesto a lui e agli imputati della celeberrima compagnia di giro qualcosa come 150 miliardi di lire. Ma il liquidatore della causa civile riuscì a pignorargli solo 1 miliardo. Nient’altro. Nel ’95 un nuovo tentativo della parte civile finisce con un buco nell’acqua o quasi, perché De Benedetti non ha nulla di intestato. Niente di niente. Come e peggio di un poveraccio. I creditori si accontentano dei suoi emolumenti.
Macchioline su una storia scintillante. Ma l’Ingegnere è fatto così: quel che capita non lascia conseguenze. Va avanti come prima, sempre circondato dal consenso pensoso di intellettuali, pamphlettisti e amici vari. Così lui, che dai suoi giornali guida il partito della moralità, è stato protagonista in Cassazione di un salvataggio che nemmeno un mago come Houdini sarebbe stato capace di ipotizzare. Dunque, la condanna a 6 anni e 4 mesi del Tribunale di Milano, confermata in appello, viene annullata dalla Cassazione con una motivazione che lascia sbalorditi ancora oggi molti giudici: il capo d’imputazione originale, estorsione, era stato modificato in corso d’opera in quello di bancarotta e questo cambio avrebbe inibito le chance di difesa del capitano d’industria. Così il sapone della Suprema corte cancella la storia della sua incursione nell’agonizzante banca di Roberto Calvi dove fu vicepresidente per due mesi. Sull’orlo di un precipizio che schivò accuratamente.
I suoi articoli ispirati, la sua matrice ebraica, persino il cognome con il De davanti a rafforzarlo e blasonarlo, tutto dev’essergli servito come un radar per illuminare i bui sentieri su cui si è inerpicato, saltando sempre abissi e ostacoli. Così è stato per l’Ambrosiano, risolto con quello scioglilingua giuridico, così dev’essere stato ai tempi, grami anche per lui, di Mani pulite. Quando Di Pietro mette il naso nei suoi affari ed Eugenio Scalfari scrive coraggiosamente che De Benedetti si «presentò spontaneamente a quei procuratori». Poi, però, anche i fuochi d’artificio verbali cedono il passo alle manette strette ai suoi polsi su richiesta della Procura di Roma. Il pentito di turno, un certo Giovanni Cherubini, spiega che per piazzare uno stock di obsolete telescriventi Olivetti, quasi pezzi di archeologia industriale, alle sventurate Poste, si pagavano le tangenti. Per l’esattezza 10 miliardi e 25 milioni. «Io - afferma Cherubini - chiedevo autorizzazione all’ingegner De Benedetti e trasferivo il biglietto alla direzione amministrativa di Ivrea la quale provvedeva all’operazione». Ma come, quel De Benedetti coincide con quello che, come scrive la penna epicheggiante di Giuseppe Turani, «ha fatto il militare come soldato semplice perché (antimilitarista) non gli andava di fare l’ufficiale, come Presidente degli imprenditori torinesi si segnala subito aprendo a sinistra, partecipa al Festival dell’Unità e cerca di convincere l’opposizione che senza una scelta a favore del mercato non c’è futuro per l’Italia»?
Anche Eugenio Scalfari ha un momento di sconforto e lo fustiga: «Ci si rivelava insomma come un uomo fatto della stessa pasta degli altri che in quei mesi, a centinaia, passavano sotto il torchio di Mani pulite».
Ma è solo un attimo. Poi anche lui lo assolve con la più fulminea delle sentenze: «Qualche differenza c’era, probabilmente si trattava più di una concussione ai suoi danni che di una corruzione da lui tentata». Come no, semmai la sua colpa, veniale, era il non essersi ribellato. Ad un sopruso.
Imprenditore sempre avanti. E qualche volta vittima. Anche se il De Benedetti nazionale è sempre stato uno svelto. Sveltissimo. Così l’allora doge dell’Iri Romano Prodi pensò di vendergli, anzi svendergli la Sme. Per 400 miliardi circa. Renato Altissimo, portatore di altri interessi, protestava: «Perché a lui sì e a me no?».

«Perché - è la risposta che avrebbe fornito il futuro presidente del Consiglio - Carlo ha un taglietto sul pisello e tu no». Una spiegazione inarrivabile. Certo che poi Craxi si mise di traverso, l’affare saltò e la Sme fu venduta come uno spezzatino. Per più di mille miliardi.

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