Caro Granzotto, la sua ultima risposta su Benigni mi ha stimolato a scriverle alcune considerazioni, maturate dopo la performance del detto a Sanremo, che avevo già archiviato. Dallottanta allottantrè ho vissuto a Ferney-Voltaire ameno paesino francese che, anche se confinante con Ginevra, era allepoca una vera piccola comunità di campagna. Mio figlio minore entrò a settembre in una scuola elementare del tipo di quelle che ancora ricordavo nella mia infanzia. In un giorno dei primi di novembre, a pranzo, mi raccontò che tutte le scolaresche erano andate in piazza, sotto la statua di Voltaire, dove il sindaco aveva consegnato onorificenze ai superstiti della grande guerra e, dopo altre liturgie, tutti in coro bambini ed adulti avevano cantato la Marsigliese. Il maestro nella settimana precedente aveva fatto le prove in classe. La conclusione del racconto fu: «Sai papà la Marsigliese è linno nazionale francese. Perché noi Italiani non abbiamo un inno nazionale?». Il pargolo aveva fatto quattro anni di elementari a Padova in un quartiere borghese con un paio di maestre cattocomuniste che andavano per la maggiore. Per dire quale fosse lItalia ancora nellottanta. Chi come me aveva rispetto per la nostra bandiera e per linno era, nella peggiore delle ipotesi, un fascistoide, nella migliore, un patriottardo. Anzi si leggeva nelle colte gazzette che linno era retorico e tronfio per non dire della musica... Lo spettacolo di quel saltimbanco, epigono del comunismo (se non è un insulto) ha denudato Fratelli dItalia. Mi ha convinto che i versi sono effettivamente grondanti di melassa retorica e la musica è una specie di tarantella. Così ora glielo lascio tutto. Tutto quello che toccano diventa monnezza. La vignetta di Krancic a proposito è la sintesi di questa ipocrisia. Cari saluti,
Padova
È così, caro Centro, Fratelli dItalia è bruttarella. Le parole, poi... Anche se non è che la Marsigliese abbia un testo meno retorico e tronfio. Pensi solo a quel «Entendez-vous dans les campagnes mugir ces féroces soldats? Ils viennent jusque dans nos bras egorger nos fils et nos compagnes!». Però linno di Mameli che poi non è di Mameli ma fa lo stesso, è il nostro. E pur se non il massimo, e pur se tuttora provvisorio (magari, in occasione del centocinquantenario, il presidente Napolitano potrebbe finalmente legittimarlo. Cosa ci vuole? Basterebbe una firmetta) ha finito per diventarci familiare. Ce nè voluta, però. Qualcosa come mezzo secolo, ritmato più che altro da Bandiera rossa, Bella ciao o Fischia il vento, unici canti ammessi dalle regole del politicamente corretto imposte dalla sinistra comunista. Canti ai quali si contrapponeva, nel caso migliore, linno dei lavoratori (demo)cristiani: «O bianco fiore, simbol damore, con te la gioia della vittoria». Mah. Ritenuti simbolo di nazionalismo di marca fascista quando il Pci privilegiava linternazionalismo di marca comunista, Fratelli dItalia, ma anche un semplice Il Piave mormorava, restarono a lungo allindice. Non li si cantava nemmeno nelle scuole dei preti, comerano chiamate quelle cattoliche. Il farlo, sarebbe stato interpretato come una «provocazione» o un gesto «antistorico». Le due folgori con le quali i trinariciuti incenerivano i nemici del popolo. Fa dunque tanto, ma tanto piacere che i veterotrinariciuti abbiano improvvisamente riscoperto inno nazionale e tricolore. E che cantino a squarciagola il primo e sventolino gonfi di amor patrio il secondo.
Paolo Granzotto
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