L’INTERVISTA 4 DAVID SEDARIS

David Sedaris osserva il pacchetto di Chesterfield blu appena posato su un tavolino nel salotto dell’hotel Exedra. La chiamano sala vip e lui ci si muove esattamente come un elfo domestico. Non è molto cambiato, a parte qualche ruga in più, da quando faceva l’assistente di Babbo Natale nelle notti di New York. Su quella storia ha scritto il suo primo racconto, quello che fa da architrave a Holidays on Ice. Le Chesterfield stanno ancora qui, ci gira intorno con la mano, non le tocca: «Lo sai che qui non si può fumare?». «Certo. È solo per non averle in tasca. Poi usciamo e te ne offro una». «Sono quattro anni che non fumo più». «Cosa?». «Sorpreso?». «Detto da uno che ha scritto Diario di un fumatore...». «Lo ammetto. Mi sono arreso. Hanno vinto i proibizionisti. Non posso vivere cercando posti dove fumare non è reato».
Sedaris è qui a Roma perché stasera si deve vedere con Stefano Benni per il Festivaldelleletterature. Si dice così, tutto attaccato. Quello che ha l’etichetta di massimo scrittore umorista americano vive tra Londra e Parigi. Qualche anno fa si è comprato con il suo compagno una casa di fronte a L’Odeon e ha scoperto che dopo anni di fame, lavapiatti, elfo, garzone e «portapacchi» ora è decisamente ricco. I suoi monologhi alla National Public Radio hanno incantato, di risate, l’America. Ciclopi, Mi raccomando tutti vestiti bene, Quando siete inghiottiti dalle fiamme, Bestiole e bestiacce perfino in Italia, pubblicati dalla Mondadori, sono libri di culto. «E mio padre può dire con orgoglio: mio figlio scrive su New Yorker. Per una famiglia di emigranti greci è un passaporto di nobiltà».
Confessi, la sua famiglia la odia.
«No, siamo legatissimi. Siamo una grande tribù ellenica. Mia madre diceva che i greci in America sono come gli ebrei, solo molto ma molto meno ricchi. Perché dovrebbero odiarmi?».
Magari perché ne ha raccontato vizi, manie, debolezze, ossessioni, un padre che lavora all’Ibm e costringe i figli a mettere su un trio jazz.
«Tutto quello che scrivo viene prima letto da loro. Non c’è nulla che la mia famiglia lascia uscire senza censura. Il jazz era free».
Com’è scrivere sul New Yorker?
«Pagano bene. Puoi dire a tutti che scrivi sul New Yorker e fai parte di un club di scrittori belli, giovani e intelligenti».
E quando vi incontrate cosa vi dite?
«Incontrarsi? Cerco di frequentarli il meno possibile. Vai a cena con loro. Ti raccontano una bella storia. Quando capiscono dallo sguardo che ti interessa ti mettono una mano in faccia e stoppano: oh, non la scrivere, questa è mia. Meglio parlare con gli infermieri. Hanno storie bellissime e non sono gelosi. Fidati, gli scrittori sono noiosi. E anche le scrittrici. Non fanno altro che dire: ieri ho scritto tre paragrafi, però non mi convincevano, allora sono andata a riguardarmeli, due pagine le avevo scritte il giorno prima e insomma ho deciso di andarmi a riprendere un saggio che diceva così e colà. Vuoi mettere gli infermieri con i loro cateteri». Guarda tutti così?
«Come?»
Come animali allo zoo?
«Mmm. Sì. Dà fastidio?»
No.
«Quando vado allo zoo mi fermo sempre davanti alla gabbia delle scimmie. Litigano. Chiacchierano. Si strappano il cibo dalle mani. Si spintonano. Poi ogni tanto una sclera, urla e se la prende con tutte le altre. Guardo le scimmie e le stelle marine. L’opposto. Ferme. Non si muovono. Chissà cosa pensano le stelle marine?»
Non ci sono stelle marine negli zoo.
«Ah, no? Comunque stanno ferme lo stesso».
In Bestiole e bestiacce ha scelto il pappagallo per il ruolo di giornalista.
«Non posso negarlo. Ripete sempre le stesse cose. Ma è un personaggio a cui sono affezionato».
Quale è la domanda che le fanno più spesso i giornalisti italiani?
«Se conosco qualche scrittore italiano».
Lo conosce?
«Certo»
Chi?
«Bruno Vespa».
Bruno Vespa?
«Perché non ha scritto libri?».
Ineccepibile.
«Adesso devi chiedermi: Bruno Vespa è conosciuto in America?».


Esattamente così?
«Non a pappagallo. Puoi anche cambiare qualcosa».
Ma Bruno Vespa è famoso in America?
«Famosissimo».
Famosissimo? Sul serio?
«No. È una bufala. Ma i giornalisti italiani ci cascano sempre».

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