TunisiDa pochi giorni c'è perfino una pagina di Facebook che lo vorrebbe presidente. Lo hanno ribattezzato «il nostro ElBaradei nazionale», in riferimento all'ex premio Nobel per la pace egiziano, tornato qualche mese fa al Cairo e diventato simbolo dell'opposizione al regime di Hosni Mubarak. Oggi Mohamed Jegham, classe 1943, fa parte del nuovo governo della Tunisia. È responsabile del Commercio e del Turismo. Torna in politica dopo anni lontano dal potere, in cui si è occupato di affari. Nel suo ufficio - in un quartiere industriale di Tunisi - non ci sono le fotografie dell'ex presidente Zine El Abidine Ben Alì, solitamente appese ovunque. Nel 2001, Jegham, ex ministro del Turismo, dell'Interno e della Difesa, è stato allontanato dal regime per aver spinto all'apertura e soprattutto per aver criticato la famiglia del raìs. Per questo ancora oggi è amato da molti tunisini. Fu mandato a Roma, come ambasciatore. Adesso che torna in politica, nel partito che fu del presidente, il Raggruppamento Costituzionale Democratico, assicura che il Paese andrà verso la democrazia.
Come fu allontanato dal regime di Ben Alì?
«Sono stato scartato dal governo dieci anni fa per aver avuto il coraggio di parlare del presidente e di sua moglie. Quando non era ancora sposato con Leila Trabelsi, ho iniziato a dire al presidente che la sua famiglia aveva oltrepassato i limiti».
Cosa vuole il Paese ora?
«Vuole libertà politica e di stampa e più spazio per i diritti dell'uomo. Adesso siamo percepiti come un Paese chiuso».
Che ruolo avrà nel governo?
«Lavorerò affinché il Paese esca presto da questa crisi e voglio che si dia della Tunisia un'immagine di calma».
Ci sarà un vero cambiamento in Tunisia?
«Dall'indipendenza a oggi c'è stato un partito unico. Oggi questo non potrà più succedere. Altri gruppi entreranno in politica, parteciperanno alla democrazia. L'importante è la transizione dal partito unico all'inclusione di altri movimenti nella vita politica. Finora però gli altri non sono riusciti ad attirare le masse».
Non potevano agire...
«Certo, possono dire di non essere riusciti a raccogliere sostegno perché avevano la bocca cucita e le mani legate. Ma secondo me, il Raggruppamento Costituzionale Democratico in futuro continuerà ad attrarre migliaia di persone. È il partito che ha costruito lo Stato. Gli altri non riusciranno a farlo».
Tra i partiti che vorrebbero entrare a far parte della vita politica ci sono gli islamisti. Esiste un rischio d'integralismo?
«C'è un rischio islamico ma nulla prova che gli islamisti avranno un partito».
È una contraddizione: aprire alla democratizzazione e non permettere la formazione di un partito religioso.
«La religione è importante e sacra, non dobbiamo lasciare i partiti a manipolarla, soprattutto perché siamo in un Paese laico».
Il prossimo presidente sarà un volto nuovo o una persona della vecchia guardia?
«Sarà del Raggruppamento Costituzionale Democratico: siamo numerosi e abituati a governare, mentre gli altri partiti non l'hanno mai fatto».
Molti tunisini la ammirano. Vi candiderete alle elezioni?
«Per ora se mi chiamano rispondo alla chiamata e servo nel governo».
Cosa è successo nelle ore prima della fuga di Ben Alì, perché il presidente ha deciso di scappare?
«L'immolazione del giovane venditore ambulante è stata come una scintilla lanciata su una raffineria di petrolio. Il presidente ha sentito che la crisi era grande ma non ha avuto abbastanza fiuto. Il suo ultimo discorso è stato pietoso: ha parlato dei prezzi del cibo, ma la popolazione non è scesa in strada per il prezzo del cibo. La sua decisione di fuggire è stata presa nel giro di tre ore. Pensava a un'assenza momentanea. Ora come può tornare?».
Qualcuno in particolare nel regime lo ha spinto alla fuga? O tra le alte sfere dell'esercito?
«Il presidente se ne è andato perché il popolo lo ha chiesto».
Cambierà qualcosa nei rapporti tra Italia e Tunisia?
«Passerà tutto. Abbiamo fatto la rivoluzione. Anche Francia e Italia hanno conosciuto moti simili. Sono fiero di quello che è successo. È un'occasione per cambiare marcia e per spingere i nostri amici europei a credere di più in noi».
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