L’INTERVISTA 4 NICOLA LAGIOIA

L’elegante sede romana della Laterza, a Roma, nel cuore dei Parioli, ha tenuto a battesimo la generazione TQ, ovvero scrittori e critici trenta-quarantenni che si sono riuniti per discutere del presente e del futuro di un lavoro, quello intellettuale, schiacciato da strumenti di comunicazione non proprio tarati - secondo la gran parte degli intervenuti - sulle reali esigenze delle nuove leve di lettori. Ora vogliono fare gruppo. O almeno vedere se possono, nel dialogo e nel confronto, trovare idee valide per contare di più nel mondo letterario. «Ci siamo talmente alfabetizzati - ha spiegato Giorgio Vasta ad apertura dei lavori - sul versante della diagnosi dei mali della nostra società da essere diventati analfabeti sull’altro, quello della prognosi». Da qui appunto l’esigenza di trovare nuove idee. Organizzato da Giuseppe Antonelli, Alessandro Graziosi, Mario Desiati, Nicola Lagioia e lo stesso Vasta, il convegno «informale» ha dato comunque esiti interessanti. Ne parliamo con Lagioia, autore del fortunato Riportando tutto a casa (Einaudi) con il quale ha vinto l’anno scorso il Premio Viareggio.
Partiamo dalla fine. Soddisfatto dell’incontro?
«È stato un inizio. In quattro ore non si risolvono problemi, si apre un tavolo. Se qualcosa di seminale c’è stato, verrà fuori nei prossimi mesi».
Durante il suo intervento ha detto: «vediamo se siamo capaci di migliorare l’ecosistema culturale nel quale viviamo». Ce lo regala un esempio pratico?
«Fare pressione sulla Rai per portare più cultura sugli schermi può essere un’idea. In fondo si tratta del servizio pubblico, e al di là delle trasmissioni in cui si parla dei libri in uscita, credo sia legittimo che ce ne possa essere una svincolata dall’occasione editoriale. Fare gruppo per ottenere un rapporto più fruttuoso con le politiche locali (gli assessori alla cultura) può essere un’altra. Pensi a cosa è accaduto in Sardegna in questi ultimi anni: basterebbe solo citare il festival di Gavoi, come buon esempio. Ma mi sono piaciute molto anche le proposte di chi (Elena Stancanelli) suggeriva un rapporto tra scrittori e scuola pubblica sul modello di ciò che ha tentato di fare Dave Eggers negli Stati Uniti».
Perché scrittori e critici, votati a un lavoro tanto individuale, sentono il bisogno di fare gruppo?
«Un grande libro lo si scrive in solitudine. Le regole del gioco, invece, soltanto un megalomane può credere di scriverle da solo».
Non parlate di poetica, non parlate di estetica, ma di strategie di visibilità. Ma non vi basta più il vostro lavoro?
«La visibilità non è importante. È importante invece ricordare che l’Italia è uno dei Paesi europei in cui si legge di meno. È chiaro che un modello non ha funzionato. Ed è chiaro che ragionare da funzionari della cultura (farsi bastare il proprio lavoro) non ha speranze di invertire la rotta».


Visto che parliamo di generazioni, quali sono le caratteristiche che accomunano i TQ? Spero non si riduca tutto all’immaginario di telefilm e di musica pop.
«Una tra le tante: aver ricevuto un mondo più comodo rispetto a quello dei nostri padri, ma decisamente più povero di opportunità, e meno aperto sul futuro».

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