L’intervista Edoardo Nesi

Abbiamo lanciato in queste pagine un dibattito sul valore dell’imprenditoria nel nostro Paese a partire dal libro di Sergio Travaglia: Il Manifesto dell’Impresa. Visto che una delle questioni dibattute nel pamphlet è il difficile rapporto fra intellettuali e ceto industriale, abbiamo deciso di parlarne con Edoardo Nesi.
Vincitore del Premio Strega edizione 2011 con Storia della mia gente e da poco tornato in libreria con Le nostre vite senza ieri (entrambi per Bompiani), Nesi è infatti uno dei rari casi di (ex) imprenditore approdato con successo alla letteratura. E nei suoi libri si racconta proprio come la grande tradizione del lanificio pratese sia stata travolta dall’Irap e dalla concorrenza cinese. Ma anche da un certo tipo di incuria sociale e culturale, di quel capitale umano che caratterizzava la piccola e media impresa.
Nesi, le sembra che l’impresa in Italia sia valorizzata?
«Io penso che l’impresa sia amata nel mondo reale... La gente che lavora, tutti quelli che con l’impresa hanno a che fare, sanno che è un valore insostituibile. Poi ci sono quelli, a partire dai politici, che il mondo del lavoro lo conoscono poco. Il risultato è che l’Italia è forse l’unico Paese al mondo che dà per scontata l’esistenza dell’imprenditoria. È una cosa che non si può più fare».
Che ne pensa di inserire l’Impresa nel dettato costituzionale? Potrebbe essere un modo di tutelarla, di valorizzarne l’importanza?
«Mah, credo che questa idea possa piacere ai politici ma dubito che potrebbe avere dei riflessi nella vita reale. L’impresa è già nella “costituzione materiale” del nostro Paese. Quello che serve è ricreare le condizioni che consentono di fare impresa. Ora come ora quelli che continuano a fare gli imprenditori andrebbero considerati come eroi».
Come mai gli intellettuali si sono sempre disinteressati dell’impresa?
«Prospettive sbagliate. Prima dei miei libri credo ci fosse davvero pochissimo. Per quanto riguarda i romanzi che parlano di imprenditori mi viene in mente solo Il padrone di Goffredo Parise. Ma, per quanto sia scritto benissimo, è una sorta di farsa criminale. C’è la solita macchietta dell’imprenditore-affamatore. Ma è solo un esempio di un clima culturale durato nel tempo. Solo negli ultimi anni abbiamo iniziato a capire che senza impresa non c’è prospettiva. Uno dei pochi meriti che mi riconosco, senza falsa modestia, è di aver provato a raccontare il lanificio sotto un’altra prospettiva».
Ma non sono stati anche i “padroni” ad avere delle colpe? Se non altro nel «vendere male» il loro ruolo sociale...
«Chi deve gestire una fabbrica, creare un prodotto, ha pochissimo tempo per pensare ad altro. Non sarà politicamente corretto dirlo, ma aver letto Anna Karenina non aiuta a vendere i propri prodotti. Non si può caricare sulle spalle dell’imprenditore anche il compito del consenso sociale, non è il suo ruolo».
Che cosa si può fare per cambiare questa situazione?
«In questi anni niente e nessuno ha fatto qualcosa per stimolare i giovani.

Per fare impresa alla fine ci vuole una grande spinta irrazionale, bisogna essere capaci di scegliere il rischio al posto della sicurezza. Il coraggio di caricarsi di debiti, di innovare. Sono valori che vanno trasmessi, una sorta di passione. L’imprenditore non è soltanto un manager. Anche questo è un errore culturale. Sono i manager ad andare di moda».

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