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L’INTERVISTA IVAN CORDOBA

nostro inviato a Los Angeles

«Andavo da Zanetti e gli dicevo: sono anni che ci facciamo un mazzo così e non riusciamo mai a vincere niente». Ivan Ramiro Cordoba fa 33 anni l'11 agosto e se svuota il baule ti tiene li le ore a parlare di Inter.
E Zanetti cosa rispondeva?
«Sempre tranquillo. Io invece ero disperato. No, non ho mai pensato di lasciare l'Inter, però non riuscivo a capire...».
E all'improvviso tutto è apparso limpido come un cielo senza nubi?
«Sì, beh, io non avrei mai immaginato una cosa così. Potevo pensare che ci fosse sotto qualcosa ma non di quelle dimensioni. Ero arrivato in Italia con un entusiasmo incredibile, per me qui c'era il miglior calcio del mondo».
E invece...
«Avevo ragione, qui si giocava veramente il miglior calcio del mondo, era proprio così. Ero felicissimo, avevo lasciato il San Lorenzo de Almagro per mettere la maglia dell'Inter anche se non avevo ricevuto garanzie di nessun tipo, anzi, mi fecero un contratto di sei mesi e se al termine non avessi convinto l'allenatore sarei tornato al San Lorenzo».
C'era Marcello Lippi?
«Sì, ma ero stato segnalato da Pezzotti, il suo secondo. Ero talmente lusingato dall'aver ricevuto una chiamata dal calcio italiano che non so neppure io cosa sarei stato pronto a fare. Poi qui c'erano dei campioni incredibili, Baggio, Blanc, Ronaldo. C'erano quattro difensori centrali, Simic, Colonnese, Blanc e Rivas, quello uruguaiano. Panucci aveva il due, appena ci presentarono gli dissi: mi dispiace ma quello è il mio numero e prima o poi me lo riprendo. E un giorno è andata così. Dieci stagioni all'Inter e adesso a dicembre chiedo perfino la cittadinanza italiana».
Quattro campionati di fila, cosa è successo?
«Non so se questa è in assoluto l'Inter più forte, ci sono state delle stagioni che l'organico metteva paura, tutti nazionali, ma secondo me mancava la base».
Cosa vuol dire?
«Significa che quando arrivava un momento difficile eravamo morti. Non si riusciva a reagire, non c'era un vero gruppo, solo tante grandi individualità».
Quello scudetto in ufficio vi ha ridato la fiducia che avevate smarrito?
«Sono intervenute tante componenti, una striscia di successi di questa portata non ha una sola motivazione. Io credo che uno dei segreti di questa squadra sia Javier Zanetti. I tifosi devono sapere che se l'Inter è arrivata in cima lo deve a questo giocatore che non mette mai la sua faccia davanti a quella degli altri, è umile, aiuta tutti e nei momenti difficili ha sempre la situazione sotto controllo. Lo conosco da dieci anni, sono il suo compagno di stanza, è maturato continuamente, è uomo che sa togliere la tensione, quando tutti perdono la testa lui ci sa fare e ogni anno diventa sempre più forte».
Ci racconti come fa.
«No, se esce qualcosa deve essere lui a raccontarla. Ma vi posso assicurare che voi conoscete solo una parte di Zanetti. Se vi dicessi che quando occorre, lui è uno che alza la voce e tutti stanno zitti, mi credereste?».
Sembra un calciatore che non si lascia mai andare...
«Attorno all'Inter ci sono sempre tante leggende che a smontarle ci si metterebbe un attimo».
Ce ne dica un'altra.
«Il presidente per esempio».
Cosa fa Massimo Moratti?
«Tutti pensano alla sera di Old Trafford quando scende in spogliatoio e si lamenta perché qualcuno ha sbagliato. Invece nei momenti peggiori, dopo le sconfitte più amare, scendeva nello spogliatoio e ci stupiva. Tutti ci aspettavamo un rimprovero e invece lui aveva una comprensione che ci metteva in imbarazzo. Io mi vergognavo».
E adesso?
«Adesso si vince».
In Europa no.
«Va bene. Vinco la Champions e smetto».
Quest'anno?
«Magari vieni eliminato con onore ma dentro lo stomaco hai un buco. Siamo usciti con il Liverpool e il Manchester, in quattro partite neanche un gol. Questo è un problema. Ma io ricordo che a Old Trafford quando Adriano ha preso il palo i loro tifosi sono entrati in ansia, si avvertiva la loro paura ogni volta che prendevamo la palla. Noi ci credevamo, ci siamo andati vicinissimi, sul campo certe cose si capiscono».
Mourinho dice che la Champions è una questione di dettagli. L'Europa resta un traguardo improgrammabile?
«Lui ha ragione, spesso un episodio da solo sposta il risultato e la qualificazione.

Ma la nostra forza deve essere quella di non aspettare che sia un dettaglio a decidere per noi».

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