L’INTERVISTA LUCIO LAMI

In un Paese come l’Italia dove le competizioni letterarie sono più numerose degli scrittori, il «Pen Club» si pone come una sorta di anti-premio, al di là di lobby, cordate, favoritismi. E ciò grazie alla formula ideata da Lucio Lami, uno dei grandi inviati del giornalismo italiano, che lo fondò nel ’91: «Il Pen, nato come premio indipendente, è diverso perché facendo votare solo i soci-scrittori si eludono giochetti e camarille. Il nostro è un voto al merito - lo slogan è “Lo scrittore votato dagli scrittori” - dal quale le case editrici rimangono escluse». Da poco è stata resa nota la cinquina finalista del 2009: Elena Loewenthal, Conta le stelle, se puoi; Giorgio Montefoschi, Le due ragazze con gli occhi verdi; Stefano Rodotà, Perché laico; Flavio Soriga, L’amore a Londra e in altri luoghi; Cesare Viviani, Credere all’invisibile. Il vincitore sarà scelto il 5 settembre nel castello di Compiano (Parma).
È cambiato qualche cosa nel mondo dei premi letterari dopo le vicende del «Grinzane» e le polemiche in altri premi che vanno per la maggiore?
«Non molto. I premi hanno ormai poco a che vedere con il riconoscimento del valore culturale. Servono agli editori, che se li spartiscono litigando, per dare lustro agli autori sui quali puntano commercialmente. I partiti, a loro volta, esercitano il loro protettorato attraverso i finanziamenti, fatti arrivare per vie istituzionali e concedendo o negando le riprese tv. Premiopoli rappresenta la sintesi di una concezione politico-commerciale della sottocultura».
E il Pen, come si finanzia?
«Cercando sponsor privati, stando alla larga dai partiti e ignorando le case editrici. I 350 scrittori soci del Pen votano con scheda anonima aperta dal notaio al momento della premiazione. Per questo il premio, pur prestigioso, è perennemente a corto di soldi. In vent’anni è costato la sesta parte di quanto il “Grinzane” spendeva in un anno».
Proporrebbe questa ricetta anche per gli altri premi?
«Non così spartana. Per risparmiare noi organizziamo la manifestazione in un antico borgo del Parmense, Compiano. L’habitat è molto letterario, ma i giornalisti preferiscono località celebri e alberghi a cinque stelle. Sono stati pasturati da premi che per invogliarli li portavano a New York o a Mosca. I loro giornali, poi, appartengono spesso agli stessi editori che pubblicano libri e che esigono ampi servizi dai premi nei quali hanno le mani in pasta».
Di voi però si parla...
«A fatica: ci considerano degli utopisti. Il nostro è un evento controcorrente: niente damazze, niente sfilata di onorevoli, niente tv. E non siamo “istituzionali”: in 20 anni, mai visto un ministro della cultura...».
Ricette per migliorare la situazione?
«Non ridurre tutto a un fatto commerciale e cercare la qualità.

Ricordo quando veniva in visita alla Mondadori, dove lavoravo, Stefano D’Arrigo, l’autore di Horcynus Orca, destando brontolii tra gli amministrativi per gli anticipi su un’opera che non terminava mai. Il vecchio Arnoldo rintuzzava tutti: “Ogni tanto bisogna anche fare cultura, senza pensare agli incassi”».

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