L’INTERVISTA LA SCRITTRICE CHOC

Irene Vilar ha quarant’anni e due figlie. Loretta e Lolita l’hanno salvata. «La maternità è stata la mia redenzione» dice oggi. Perché oggi è dopo l’inferno: quindici aborti in quindici anni. La prima volta è stata a 17 anni. Irene arriva da Porto Rico negli Stati Uniti e si innamora di un prof all’università, un uomo di cinquant’anni che le impone di non avere figli. Un incubo. Fino a che incontra l’amore vero, il padre delle sue bambine. E racconta tutto in un libro, Scritto col mio sangue, ora pubblicato in Italia da Corbaccio.
Si definisce una ex aborto-dipendente. Perché?
«Era davvero una dipendenza: da un lato, l’eccitazione e la speranza della gravidanza; dall’altro la fase autodistruttiva, il dolore, la vergogna».
E come è guarita?
«Ho lasciato mio marito. E con la terapia: tre anni di analisi, tre volte a settimana».
Ha conosciuto altre donne con esperienze simili?
«Ho ricevuto centinaia di lettere. In Nord America e Gran Bretagna metà delle donne che interrompe una gravidanza ha un aborto alle spalle».
Che cosa raccontano quelle lettere?
«Che per moltissime donne 6 o 7 aborti sono la normalità. Quando ha letto il manoscritto del libro la mia migliore amica d’infanzia mi ha confessato di aver abortito sei volte».
Come può succedere?
«È una sequenza tragica di tre elementi: ignoranza sessuale; ingiustizia sociale; dramma personale. Ma la società tende a nasconderli».
E come se ne esce?
«Mia madre ha avuto tre figli, è stata sterilizzata dal governo americano e poi si è tolta la vita quando avevo solo sei anni. Ho tentato di creare un linguaggio per cercare di capire le mie azioni, il mio corpo. Ero come una persona malata di anoressia o di bulimia».
Ha detto: sono stati dieci anni di vergogna. Come mai se n’è accorta così tardi?
«Ero una caricatura di me stessa, non controllavo le mie azioni. Ogni volta mi dicevo: è l’ultima. Mi dicevo: mai più questo orrore, mi ricorderò di prendere la pillola. Ma la neurosi interveniva proprio lì».
E suo marito che faceva?
«Mi diceva: la scelta è chiara, o diventi una madre single, o stai con me. Ma di quale scelta si parla, se non si è in grado davvero di esercitarla?».
Pensa di aver abusato del diritto all’aborto?
«Ognuno è responsabile delle sue azioni, e sì, ho abusato del mio diritto. Però bisogna considerare il contesto. Non è una giustificazione. Il dibattito sull’aborto è sempre estremizzato, ma la realtà è che spesso le persone sono confuse, anche su temi morali».
È vero che i gruppi pro-aborto non volevano raccontasse la sua storia?
«Temevano che qualcuno accusasse subito: “Ecco il tipico caso di abuso, ecco i rischi del diritto all’aborto”. Ma è un fallimento non confrontarsi con storie come la mia, che riguardano migliaia di donne».
Il suo libro è stato rifiutato 51 volte...
«Alcuni hanno detto: è un libro impossibile, come il titolo originale, Impossible motherhood, cioè maternità impossibile. Altri che le donne l’avrebbero rifiutato, altri ancora che era troppo pericoloso. Ora migliaia di copie sono state adottate nelle università».
Ora è madre di due bambine. Che cos’è stata la maternità dopo tanto dolore?
«Una redenzione totale. Ora so che il desiderio di maternità e quello di realizzare me stessa possono coesistere».
Scrive: «Tutto può essere giustificato, eccetto il peso di una vita interrotta che morirà con me».

Come ha sopportato quel peso?
«Grazie alla terapia sono riuscita a rielaborare quell’orrore in modo che avesse un senso nella mia nuova vita. Le vite che sono morte con me, tutti gli aspetti più terrificanti di quello che è successo, oggi sono parte della mia rinascita».

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