La «guerra» che gli ayatollah, o meglio alcune fazioni radicali del regime iraniano, hanno dichiarato a Benetton e ad altre marche della moda italiana sta scivolando nel ridicolo. Quel «sionista» di Luciano, patron del gruppo di Treviso, ne pensa una più del diavolo, ma questa volta sarebbe stato smascherato: «Le magliette e i pantaloni venduti dalla Benetton sono strumenti di spionaggio». Non ci crederete, ma si legge proprio così in uneditoriale pubblicato sul giornale Iran di proprietà dellente radiotelevisivo di stato. Laffondo islamico fa parte di un ampio dossier che punta a dimostrare come il gruppo trevigiano ed il suo fondatore siano al servizio del «sionismo internazionale». Le fanta accuse a mezzo stampa sono uscite una decina di giorni e fanno parte di una campagna mediatica senza mezzi termini. A dire il vero loffensiva si è ammorbidita da 4-5 giorni, ma la storiella dello spionaggio rimane una chicca che vale la pena di raccontare. Secondo larticolo di Iran, «molti prodotti della Benetton contengono un chip capace di raccogliere informazioni e trasmetterli a una centrale di raccolta dati». Una specie di Grande fratello ovviamente inventato dai cattivoni americani. «Questi chip - si legge nell'articolo - sono stati costruiti con una tecnologia nota con la sigla Rfid e trasmettono le informazioni raccolte attraverso le onde radio». Laspetto tragicomico è che il sistema esiste veramente, ma la Benetton mon lha mai utilizzato. La sigla Rfid sta per Radio Frequency Identification ed è una tecnologia per l'identificazione automatica di oggetti, animali o persone che si basa sulla lettura a distanza di informazioni contenute in un tag. Un tag di Rfid è costituito da un microchip che contiene dei dati e per gli indumenti sostituisce il codice a barre: «Nel caso dei capi di abbigliamento potrebbero essere il colore, la misura e cose del genere - spiega il portavoce del gruppo, Federico Sartor -. La Benetton, però, non lo utilizza perché costa un euro e anche più a indumento. Un investimento che abbiamo scartato, dato che produciamo 140 milioni di capi allanno». In ogni caso servirebbe per tenere sotto controllo i magazzini e le scorte. Al cliente il famigerato chip andrebbe staccato una volta venduta la merce. Anche se non fosse così le informazioni che potrebbe raccogliere il fantomatico Grande fratello adombrato dagli iraniani si limiterebbero al tipo di capo, colore, misura e disponibilità in magazzino, non certo sullindividuo che lo indossa.
Secondo i fustigatori del costume iraniano la colpa di Benetton e altri marchi della moda italiana e internazionale è di essere «strumenti della penetrazione culturale dellOccidente corrotto» attraverso abiti, borse e scarpe. La campagna mediatica è partita alla fine dello scorso mese usando come cavallo di Troia cinque deputati iraniani che hanno scritto una veemente lettera di protesta indirizzata al Majilis, il parlamento. Nella missiva chiedevano di «impedire linfluenza di Benetton nella moda e nello stile dellabbigliamento femminile». Alliniziativa si era associato il presidente del parlamento, Gholam Ali Hada-Adel, che accusava i negozi Benetton di non aver tradotto il marchio e la pubblicità in lingua locale.
Il gruppo di Treviso ha sette negozi in Iran, quattro dei quali nella capitale. Adesso sono state uniformato le scritte in farsi come prevede la legge. In realtà il gruppo di Treviso non ha mai ricevuto alcuna comunicazione ufficiale di sfratto dallIran. Lattacco al gruppo Benetton fa parte delle faide politiche che si stanno consumando allombra degli ayatollah. Il gruppo ha iniziato a prendere contatti con le autorità locali nel 2002, quando primo cittadino di Teheran era il riformista, accusato di corruzione, Malek Madani. Il primo negozio del «sionista» Benetton, però, è stato aperto nel 2004.
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