L’irritazione del Colle per il caos pd sulla Libia

RomaMassimo D’Alema cerca di salvare capra e cavoli: il «concetto generale» espresso dal presidente Napolitano - col ceffone menato ieri all’opposizione - è condivisibile: «La sinistra deve mettere in campo un’alternativa credibile e infatti nel ’96, quando ero segretario del Pds, insieme a Prodi lo facemmo e governammo». Ma interpretarlo come una «critica al Pd» è «una forzatura mediatica».
Ma tutti, nel Pd, sanno che il presidente della Repubblica ce l’aveva proprio con loro e non con Di Pietro. Non certo per simpatia: nulla è più estraneo alla cultura politica di Napolitano del rozzo populismo giustizialista dell’ex pm, che il presidente non prende neppure in considerazione come «opposizione affidabile» (e lui lo sa e si vendica con una battutina velenosa: «Ce l’ha con l’ex Pci di cui faceva parte dai tempi dell’Ungheria»).
Napolitano è andato su tutte le furie per la gestione parlamentare della vicenda Libia. In privato, raccontano autorevoli fonti interne, il presidente aveva ricevuto assicurazioni dai capigruppo, Dario Franceschini e Anna Finocchiaro: il Pd avrebbe incalzato il governo, chiamandolo a rispondere delle proprie lacerazioni sulla missione libica. Ma si sarebbe ben guardato dal presentare documenti e provocare voti, col rischio di mettere in discussione la credibilità internazionale dell’Italia («E ricordiamoci che è stato Napolitano a metterci la faccia e a farsi garante con Obama per il nostro paese», sottolinea il Pd Francesco Boccia), visto che appena un mese prima il Parlamento aveva dato via libera all’intervento militare alla quasi unanimità. Al Senato la promessa è stata mantenuta, «e abbiamo fatto bene» sottolinea il veltroniano Ceccanti; alla Camera no. E il risultato, dal punto di vista dell’opposizione, non poteva essere peggiore: la maggioranza si è ricompattata, sia pur su un testo ambiguo e pasticciato, subito smentito dalla Nato; mentre il centrosinistra si è sfrangiato e confuso in rivoli un po’ pacifisti e un po’ interventisti.
Sul Colle è stata letta come la riprova di una gestione dell’opposizione parlamentare che «oscilla tra pulsioni aventiniane e radicalismi ispirati dal partito di Repubblica; tra sdegnate chiusure a ogni tipo di dialogo e sciatterie nella battaglia concreta quotidiana», spiega uno dei dirigenti che ha buoni rapporti col Presidente. E che racconta come Napolitano non abbia mancato di far notare «il deficit di credibilità di una opposizione che fa questo pasticcio sulla Libia e poi sulle cose serie con le sue assenze salva il governo». Il riferimento alle decine di deputati che sono mancati all’appello il 28 aprile, consentendo alla maggioranza di approvare il documento di politica economica, è esplicito.
Bersani nega di essere «amareggiato» dalle critiche, e difende la «credibilità e responsabilità» del Pd.

Ma non è un caso se due aspiranti futuri leader del centrosinistra come il romano Zingaretti e il fiorentino Renzi (che con Napolitano sta tessendo da tempo un rapporto solido) si mettono subito in sintonia col Colle: «Dobbiamo fare come dice, e cioè essere una sinistra che non si limita ad andare contro gli altri, ma dimostra concretamente di saper fare bene le cose», spiega il giovane sindaco di Firenze. E la «verifica nel Pd», minacciata da Veltroni per il dopo-elezioni, sembra essere già stata aperta. Dal Quirinale.

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