È belga. Vince tutto. Gli manca solo il cognome per essere Merckx. E subito mi scuso per la bestemmia. Limmenso Cannibale è già di suo alterato, lui fiammingo, nel vedere che un vallone gli viene accostato. Poi cè il resto, che supera le rivalità territoriali e storiche: Eddy ha vinto quasi cinquecento corse, il più grande di tutti e il più grande di sempre (solo noi italiani, per patetico provincialismo, diciamo che lo fu Coppi: in realtà, se si passa dal romanzo ai risultati, prima di Fausto io metterei persino Hinault). E comunque: questo nuovo belga ha vinto tutto soltanto nellultima settimana. Deve inventarsi qualcosaltro, evidente. Oltre tutto ha pure un cognome da maggiordomo di film gialli: Gilbert. La stoffa del ciclista comunque non gli manca: il tempo dirà quanta, fino a che punto.
Per il momento, va preso molto sul serio: nel settore superclassiche, appare completissimo. Forte sul pavé, forte sugli strappi secchi, forte sulle lunghe distanze, forte nello sprint finale. Il suo poker autunnale parla da solo: Coppa Sabatini, Parigi-Tours, Giro del Piemonte e infine Giro di Lombardia, che è come il 110 e lode dopo la discussione della laurea. Attacco sullultima salita di San Fermo, duetto con lo spagnolo Sanchez, campione olimpico e unico a tenergli dietro, infine volata senza possibilità di discussioni. Vittoria annunciata, vittoria telefonata, vittoria scontata. Inutile aggiungere che proprio per questo ha valore doppio, perché non cè niente di più complesso del trionfo quando tutti marcano lo stesso nome. Philippe Gilbert non sarà ancora Merckx, certamente non lo sarà mai, ma nel Dna deve comunque avere qualcosa dellingordigia e della tracotanza dellillustre avo. Nonostante sia vallone, direbbe accigliato SuperEddy.
Mentre il Belgio si gode le sue belle questioni interne, nel Paese dove il ciclismo resta comunque sempre in testa alle passioni popolari, lItalia porta sul podio Bossi e Formigoni, ma nessun ciclista. Dopo Gilbert e Sanchez, è il russo Kolobnev a regolare lo sprint dei più forti, a soli 7. Il primo dei nostri è l'azzurro Paolini, quarto. Ma è pure lunico nei primi dieci. Anche il Lombardia si chiude nel solco di questo memorabile e inverosimile 2009: con Cunego e Basso che fanno benino, sempre con i migliori, ma che alla fine restano sullo sfondo della festa, come le brave comparse.
Capolavoro compiuto: con il Lombardia, abbiamo veramente perso tutto. Qualcuno sostiene che abbiamo vinto la Freccia Vallone, ma avendola vinta con Rebellin eviterei lo sgradevole distinguo. Anche solo per decenza. Nessuna scusa e nessun appiglio: sè perso tutto, sè perso male. Grandi giri e grandi classiche. A niente vale la consolazione di tante vittorie nelle corse minori: soltanto i poverini si consolano alle sagre del fagiolo.
Ragionando seriamente, bisogna solo prendere atto e magari ragionarci sopra. Effettivamente il crollo dei successi coincide con la fermezza della nostra lotta al doping, ma può persino essere una semplice coincidenza. È un fatto però, anchesso magari casualissimo, che i più draghi di questera siano gli spagnoli, esponenti del Paese più disastrato e menefreghista sul fronte antidoping. Tutte coincidenze? Tutte coincidenze. Noi facciamo meglio a guardare nel nostro piatto e a compiacerci dell'operazione candeggio avviata negli ultimi anni. Se questo significa anche perdere qualche corsa, pazienza. Ce ne faremo una ragione. Quando vinceremo, però, sarà molto più gustoso.
Che altro? Ma sì, non dimentichiamolo, il vecchio DinosAuro Bulbarelli. Dopo più di un decennio al microfono Rai, ore e ore di estenuanti chiacchierate su ciclismo, geografia e cucina grassa, il mastodontico telecronista passa a miglior vita, in senso buono: diventa vicedirettore sport del servizio pubblico. Cè un dettaglio che gli fa onore: prendendo i gradi, sceglie di lasciare il palco (al suo posto, il radiofonico Pancani).
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