L’ITALIA A BASSA VELOCITÀ

Quando il 26 gennaio del 1975 venne firmato l’accordo sul punto unico di contingenza, il Corriere della Sera titolò: «Importante accordo Confindustria-Sindacati apre nuove prospettive al rilancio produttivo». Fu un disastro. Il livellamento verso il basso dei salari e il loro aumento superiore a quello dei prezzi, grippò il sistema industriale italiano per dieci anni. L’incapacità degli osservatori che contano di ribellarsi alle sabbie mobili in cui si stava sprofondando fu clamorosa. Oggi, purtroppo, un vasto settore dell’economia italiana è rimasto al 26 gennaio del 1975: ragiona con le medesime logiche. E, ciò che è più grave, ha trovato un interlocutore compiacente a Palazzo Chigi.
Il settore pubblico e quello dei trasporti sono la malattia di questo Paese. Qualcuno ci sta raccontando che lo sviluppo è frenato dall’evasione, è bloccato dalla scarsa ricerca dei privati e dal nanismo delle nostre imprese. Tutto grave per carità. Ma il punto è che siamo spaccati in due: un Italia che fa da sé, produttiva e forse qualche volta un po’ miope. E un’Italia che prende lo stipendio pubblico e che ha l’ambizione di essere colta e strategica. La divisione è trasversale e non riguarda Nord e Sud, non cambia tra uomini e donne e non si divide tra destra e sinistra (quanti errori ha commesso anche il passato governo non comprendendo questa realtà).
L’Italia del privato subisce ormai passivamente l’Italia assistita. Si viaggia su due mondi separati. Un interessante studio di un anno fa (reperibile su lavoce.info) mette in evidenza le ore di lavoro perse, per scioperi, in diversi settori. Ebbene nel settore metalmeccanico si è passati da 155 milioni di ore perse ai tempi dell’autunno caldo (1969) ai circa 2,7 milioni del 2003. Nei mesi scorsi la Fiat ha firmato il contratto integrativo senza un’ora di sciopero. Nei trasporti al contrario è un’ecatombe. Velocemente: nelle Fs dal 1999 al 2004 166 scioperi proclamati all’anno, nel trasporto aereo 38 solo per i controllori a cui aggiungere piloti, assistenti e via dicendo. A ciò è corrisposto un aumento delle retribuzioni del settore pubblico e parapubblico superiore a quelle dei privati. Per l’Istat nel 2006 i salari dei privati sono aumentati in media del 2,9 per cento. Mentre nella pubblica amministrazione del 5 per cento: cioè il doppio. Andiamo avanti: nel privato si lavora in media 1736 ore l’anno, nel pubblico la media scende a 1361. Ci fermiamo qua e sintetizziamo. C’è un’Italia che stringe la cinghia, lavora molte ore, non ha conflitti con la proprietà e ottiene aumenti retributivi contenuti. E poi c’è un’Italia protetta, conflittuale, che porta a casa incrementi salariali doppi con orari di lavoro inferiori.
In questo quadro, fatto solo di numeri pubblici, è bene a questo punto ricordare tre cose.
La prima è che il governo, con questa finanziaria, è riuscito a scontentare tutti tranne gli Statali a cui sta riconoscendo aumenti contrattuali per quattro miliardi di euro.
La seconda è che il nuovo numero uno delle Fs, un sindacalista diventato manager, dice che per far girare i treni servono quattro miliardi.


La terza è che gli assistenti di volo di Alitalia (poco più di 4000) non ci faranno volare il 15 dicembre per uno sciopero a pochi giorni dalle dichiarazioni dell’amministratore delegato che ha sostenuto: «Più si vola, più si perde».
Quando si vede questa Italia, ahinoi, sembra essere tornati agli umori del Corsera di trenta anni fa.

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