L’Italia divisa in aula al Sud uno su quattro lascia dopo le medie

Ricerca di Bankitalia: nel nostro Paese il tasso di abbandono è del 20 per cento, nel Mezzogiorno sale al 25. Dieci punti in meno della media europea. Fra i motivi principali lo sfascio delle strutture

Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud, Isole. Tante scuole. Non una sola, come direbbe forse l’istinto, come gridano le polemiche di questi giorni dopo le affermazioni del ministro Gelmini. I numeri raccontano le realtà diverse dell’Italia, calcolano le medie, le mettono a confronto e il risultato è chiaro: al Sud e nelle isole un ragazzo su quattro abbandona la scuola appena ha ottenuto la licenza media. Un record: la media europea è del 15 per cento, quella italiana sale già al 20, ma nel meridione il dato è ancora più pesante, 25 per cento.
È la zona del paese più lontana dall’Europa; il Nord Ovest supera la media di poco, con un tasso di abbandono del 18 per cento, il Nord Est si allinea al 15 per cento, il Centro è di poco sotto. Lo studio di Bankitalia sull’economia delle regioni italiane del 2007 parla di un divario difficile da colmare: negli ultimi anni i ragazzi italiani che hanno lasciato la scuola subito dopo le medie sono diminuiti, ma la tendenza al ribasso non è sufficiente, almeno per il Mezzogiorno. L’agenda di Lisbona fissa l’obiettivo del dieci per cento: una percentuale che sembra irraggiungibile. E la distanza si misura anche su un altro fronte, quello del livello d’istruzione. Perché, al di là degli slogan, i numeri ancora una volta spiattellano differenze abissali, quelle calcolate dagli studi Ocse Pisa sulle capacità degli alunni in matematica, scienza e lettura e che vedono gli italiani ai piani bassi della classifica, con situazioni opposte nelle diverse regioni: nel Nord Est gli studenti superano la media europea, al Sud se ne allontanano di circa 70 punti. L’Invalsi, l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione, ha tradotto quei 70 punti nel ritardo corrispondente: è come se un ragazzo fosse due anni indietro. Peccato che l’età sia la stessa e i due anni siano stati frequentati, anche se i risultati lo nascondono.
L’età chiave, secondo lo studio di Bankitalia, sono i 15 anni, quando il 13% dei ragazzi è già fuori dal mondo della scuola. È l’età in cui il 3,7% rinuncia all’istruzione dopo aver terminato la scuola dell’obbligo e in cui lo 0,8% lascia, senza aver nemmeno ottenuto la licenza di terza media. E anche in questo caso le percentuali crescono al Sud e nelle isole rispettivamente al 5,1 e 1,1 per cento, mentre al Centro scendono allo 0,9 e 0,4 per cento.
La débâcle non è su tutta la linea, visto che un’indagine di Tuttoscuola attribuisce alla Sicilia il primo posto in classifica per le condizioni del personale scolastico; e gli alunni meridionali delle prime classi delle elementari ottengono i risultati migliori. Ma quelle stesse prove, in prima media, diventano una bocciatura: gli studenti del Nord e del Centro ottengono i voti più alti. La conclusione arriva con le cifre laconiche degli studi Ocse Pisa: punteggio medio europeo in matematica 498, media italiana 462; capacità di lettura, Europa batte Italia 492 a 469. Poi, però, si scopre che gli studenti del Nord Est vantano una media di 505 punti in matematica e di 506 punti in lettura; quelli di Sud e isole sono fermi rispettivamente a 440 e 443.
Che succede al Sud? I ricercatori della Banca d’Italia hanno provato a indagare le cause di quel tasso di abbandono scolastico così penalizzante. Risposta: contano l’ambiente familiare e l’offerta formativa. Se i genitori sono laureati, è dieci volte meno probabile che il figlio lasci la scuola. Ma è più difficile che succeda al Sud, dove il 57 per cento della popolazione fra 35 e 55 anni (cioè i genitori degli alunni) ha la licenza media, rispetto al 44% del Centro Nord.

La frequenza più irregolare degli allievi meridionali dipenderebbe anche dalla minore presenza del tempo prolungato e dalle infrastrutture spesso inadeguate (quando non cadono a pezzi). Sul fronte dei professori, poi, il problema non sarebbe tanto nel loro numero ma, piuttosto, nella maggiore diffusione di contratti a tempo determinato. Che aggiungono precarietà a una situazione già precaria.

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