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L’Italia non è un Paese per buoni maestri

In un libro, "Talento da svendere", la ricetta per rilanciare il Belpaese, che dal 1995 al 2007 è passato dal 16° al 47° posto nella classifica mondiale della competitività. Bisogna imitare Irlanda, Svezia e Spagna, che hanno rivoluzionato l’istruzione superiore

L’Italia non è un Paese per buoni maestri

«Il 95 per cento del mio patrimonio esce dall’azienda tutte le sere e il mio compito è fare in modo che torni entusiasta la mattina dopo». Lo dice Jim Goodnight, fondatore e capo della Sas, una delle più importanti società di software del mondo. In Italia quanti imprenditori si sentirebbero, in tutta coscienza, di sottoscrivere quell’affermazione? E, sostituito il termine «azienda» con «ospedale» o «università» (oppure scuola, ministero, prefettura eccetera eccetera), quanti sarebbero i dirigenti a farlo? Purtroppo, pochissimi.

Risorse umane La risposta viene spontanea a chiunque abbia un minimo di pratica con l’Italia e gli italiani, che sia nativo dello Stivale o no, che operi nel settore privato o in quello pubblico, nella sanità o nella grande distribuzione, nell’agricoltura estensiva o nel terziario avanzato. Ed è la stessa risposta da cui è partita la ricercatrice Irene Tinagli per scrivere “Talento da svendere” (Einaudi, 190 pagine, 14,50 euro), un libro che cerca di spiegare perché nel nostro Paese le qualità delle persone (delle «risorse umane», come dicono gli addetti ai lavori) non vengono valorizzate come sarebbe logico, ma anche eticamente corretto e soprattutto economicamente vantaggioso, aspettarsi.

Elite In Italia, si legge nel libro della Tinagli, ci sono oltre quattro milioni di persone attive in settori strategici come medicina, ingegneria, elettronica, design, moda, istruzione e informazione dotate di competenze ed energie che potrebbero far decollare l’economia se solo fossero coltivate e valorizzate a dovere. Si tratta della cosiddetta classe creativa, che da noi rappresenta il 21 per cento della forza lavoro e che nei principali Paesi europei è invece il 30 per cento. Quanto all’élite di questa classe, nello Stivale è il 9 per cento della popolazione attiva, mentre in Svezia e in Irlanda è il 18/20 per cento. Ma in Italia ci sono circa anche tre milioni e settecentomila (fonte Istat) persone che non hanno la possibilità di mettere alla prova quanto sanno fare.

Maestri Come dare chance alle persone di qualità, quelle che vogliono sempre dare il meglio e che per svolgere il loro compito come si deve non hanno bisogno di capi assillanti e controllori pignoli? Con la «catena del valore del talento», che deve impegnare i responsabili di università, imprese, enti locali e, ciascuno per la propria parte, tutti gli italiani in una delle attività umane fra le più scomode e «rognose», sempre esposta a critiche incrociate e qualche volta bersaglio dell’ingratitudine: premiare chi merita. Prima di tutto con la fiducia, l’attenzione, l’incoraggiamento e le opportunità di crescita. E poi anche, certamente, con le risorse economiche. Perché, come disse nel 1970 l’economista americano Paul Samuelson ricevendo il Nobel «per vincere un premio come questo bisogna avere grandi maestri». Certo, solo i maestri davvero grandi sanno essere spietati con gli allievi non all’altezza e generosi, a volte fino all’autolesionismo, con quelli nei quali intravedono il talento del fuoriclasse. E se le riforme non fanno i grandi maestri possono costruire un «sistema» in cui la qualità e le potenzialità delle persone non vengano sistematicamente depresse come succede troppo spesso in Italia, dove la raccomandazione e le pratiche nepotistiche distorcono la concorrenza a svantaggio del talento e favoriscono la fuga dei cervelli.

Modelli In sostanza, spiega la Tinagli, si tratta di prendere esempio da Irlanda, Svezia e Spagna. Dall’isola di San Patrizio perché, unico Paese in Europa, dei finanziamenti dei Fondi strutturali Ue ne ha destinati di più alla formazione che a strade e grandi opere (per mettere a disposizione delle multinazionali risorse umane d’eccellenza); perché ha detassato i proventi di produzioni artistiche (trattenendo in patria gli U2, Sinead O’Connor, Elvis Costello e Irvin Welch); e perché ha puntato sull’urbanistica di qualità e le politiche culturali (per ottenere nel turismo internazionale gli alti tassi di crescita che poi ha effettivamente registrato negli ultimi anni). Dal regno scandinavo perché all’inizio degli anni Novanta ha rivoluzionato il proprio sistema di istruzione superiore e da allora ha anche sempre battuto il record europeo negli investimenti in ricerca, producendo brevetti a livelli statunitensi. E perché ha aperto la società la mondo facendo di Stoccolma, Uppsala e Goeteborg vere e proprie «calamite» per i talenti creativi di tutto il pianeta. E infine i nostri cugini iberici. Anche loro hanno scommesso, oltre che sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro e sulla riqualificazione degli ambienti urbani, su una rivoluzione dell’istruzione superiore accompagnata a un forte aumento della spesa per ricerca e università e all’adozione di tecniche di valutazione dell’attività accademica. 

Pre-giudizi Perché se esiste una «parola magica», questa è «valutazione». Cioè la misura ex post, senza pre-giudizi ma sulla base di criteri stabiliti in precedenza e validi erga omnes, dei risultati. Quelli prodotti su un territorio dall’applicazione di una legge dello Stato o dei provvedimenti sul traffico adottati da un Comune; quelli ottenuti in un’azienda dalla messa in atto di una nuova strategia commerciale.

E anche quelli conseguiti da ciascuna persona. 

 

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