Come tutti possono constatare quotidianamente nella propria vita, l’Italia è attanagliata da due enormi problemi: la pausa pranzo e il razzismo contro Balotelli. La politica, sensibile alle questioni più serie, sta dedicando molto tempo e parecchie risorse intellettuali alle due emergenze. Nelle ultime ore, sulla pausa pranzo si sono presi tutti una pausa. Su Balotelli, continua lo sferragliare di cervelli. I finiani hanno la soluzione: il ragazzo deve andare in nazionale ai prossimi Mondiali, come dimostrazione vivente dell’integrazione possibile, come schiaffo morale ai razzisti che lo fischiano ovunque. Praticamente uno spot.
Chiediamoci però serenamente: davvero l’Italia ha bisogno di sciacquarsi la coscienza, di rifarsi una verginità, di costruirsi un’immagine tollerante giocando con Balotelli? Davvero abbiamo colpe da riscattare con una propaganda così smaccatamente politically correct?
Personalmente sono dell’idea che Balotelli debba giocare in Nazionale perché è forte. Se è forte. Balotelli non può diventare uno strumento dimostrativo. Anche perché, con tutto il rispetto, non abbiamo proprio niente da dimostrare. Dovremmo spiegare al mondo che non siamo razzisti? Ma noi non siamo, e non siamo mai stati, razzisti. Come sentimento collettivo. Semplicemente, ci sono alcuni italiani così idioti da essere anche razzisti: ma il vero problema è l’idiozia, che inevitabilmente si declina in tutte le sue sconfinate possibilità. Soprattutto dentro gli stadi (immancabile la dimostrazione anche a Bordeaux).
L’emergenza nazionale nasce qui: da quattro scimuniti di curva che hanno capito quanta pubblicità, quanta autostima, quanta importanza possono mendicare berciando “buuu” a un ragazzo di colore, il quale tra l’altro fa di tutto per prestarsi a così squallida macelleria, reagendo, provocando, sclerando con prevedibilità matematica. Questa la sostanza del problema. Il resto è solo perbenismo interessato. Piace a molti, questa idea dell’Italia becera e razzista. Piace soprattutto a una certa Italia convinta della propria superiorità morale. Però diciamolo, è tutto così stancante.
Nel concitato periodo, dovrebbe valere il commento di Clarence Seedorf, altro campione di un certo colore che vive qui da molto tempo: «L’Italia non è un Paese razzista. I cori contro Balotelli non sono razzismo. Lui è giovane e deve imparare a comportarsi. In campo provoca». Più sintetico e più lucido di tanti editoriali. Più incisivo di mille talk-show. Come una pietra tombale sull’interminabile dibattito.
Ma se non merita credito neppure Seedorf, nella strana storia di Balotelli c’è qualcosa di veramente indiscutibile e inappellabile: la sua stessa storia. Basta rileggerla. Basta comprenderla. Mario è un bambino africano adottato da una famiglia bresciana - ma tu guarda, proprio là nel profondo Nord trucido e razzista -, un bambino che nel giro di pochi anni è finito a giocare nello stadio sognato da milioni di suoi coetanei bianchissimi. Tutti ragazzi che non ci arriveranno mai (vittime del razzismo contro i brocchi?). Il colore non ha pesato sul domani di Balotelli, così come non pesa su tantissimi ragazzini di varia tonalità che stanno affollando i nostri vivai: pensa un po’ come siamo fatti noi, abbiamo il pregiudizio del talento. Chi ha talento va avanti, chi non ha talento può passare al ping pong.
Il razzismo vero, che abbiamo letto sui libri di storia, è costruito su una diabolica e insuperabile divisione sociale: lavoro per bianchi e lavoro per neri, quartieri per bianchi e quartieri per neri, scuole per bianchi e scuole per neri. Così le culture, i locali pubblici, persino le toilette: tutto un mondo rigidamente diviso dal colore.
Per quanto stracarichi di difetti siamo noi, possiamo dire con tranquillità che le nostre città e i nostri villaggi sono pieni di integrazione pacifica. Nelle scuole, nelle fabbriche, nelle aziende agricole. Se un razzismo sentitissimo sopravvive ovunque, è contro i farabutti. Ma questo è tutto un altro discorso.
E allora, dove sta il problema? SuperMario sta diventando una ricchissima star del nostro sport.
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