L’odioso silenzio sul Darfur

Livio Caputo

Che ci siano nel mondo i morti di serie A e quelli che non interessano a nessuno non desta più meraviglia. Che l’Onu si impegni a fondo solo sui fronti che coinvolgono le grandi potenze e presti poca attenzione agli altri è in un certo senso scontato. Che i crimini commessi dai Paesi musulmani, soprattutto se ricchi di petrolio, godano spesso di maggiore indulgenza degli altri rientra egualmente nella prassi. Ma quel che succede in questi giorni nel Darfur, la provincia occidentale del Sudan dove da tre anni è in corso una guerra di sterminio contro alcune tribù di religione islamica, ma di etnia africana e pelle scura, invise al governo arabo-islamista di Khartoum, è una vergogna che non deve passare sotto silenzio. Nonostante ripetuti tentativi di mediazione il conflitto ha già fatto trecentomila morti e circa due milioni e mezzo di profughi. Il responsabile locale dell’Onu, nel cercare di attirare l’attenzione dei suoi superiori del Palazzo di vetro, ha pronosticato «una catastrofe umanitaria di una dimensione senza precedenti», ma pochi hanno raccolto il suo grido di dolore.
Dopo un primo round di attacchi indiscriminati alle tribù non arabe insediate lungo i confini con il Ciad, ad opera sia dell’esercito sudanese, sia di bande di irregolari a cavallo noti come janjaweed, alla fine del 2004 tra Khartoum e le tribù di confine che chiedono l'autonomia è stato concluso un cessate il fuoco mai veramente applicato, seguito da un «trattato di pace» rimasto parimenti lettera morta. A vigilare su questi fragili accordi, che coprono un territorio grande tre volte l’Italia, è stato inviato un corpo di spedizione di 7.000 uomini forniti dall’Unione africana, male armati, male equipaggiati, e soprattutto con regole di ingaggio che li rendono praticamente impotenti. Ciò nondimeno, la loro presenza è servita a proteggere almeno i profughi raccolti nei principali campi dai peggiori abusi delle milizie arabe.
Adesso il governo sudanese del presidente Omar al Bashir ha deciso di chiudere la partita con i ribelli e ha invitato l’Unione Africana (il cui mandato termina il 30 settembre) a richiamare le sue truppe. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha reagito, votando il 5 settembre, con l’astensione della Russia, della Cina e del Qatar, una risoluzione che prevede invece l’invio nel Darfur di 20.000 Caschi blu, con lo specifico compito di impedire la ripresa del genocidio e di riportare la situazione alla normalità. Ma Al Bashir, con il sostegno esplicito della Lega Araba e quello tacito di Pechino e di Mosca, ha risposto con un secco no, accusando il Consiglio di «complottare per privare il Paese della sua sovranità». Diecimila militari sudanesi e altrettanti janjaweed sono già pronti a riprendere l’offensiva, che provocherebbe altre migliaia di morti e innumerevoli profughi. In vista della ripresa delle ostilità, le organizzazioni umanitarie si stanno già preparando a lasciare il Paese.
Gli stessi soldati dell’Unione africana sembrano rassegnati: «Talvolta ci chiediamo che cosa stiamo qui a fare» ha detto un loro ufficiale all’inviato del New York Times. «Siamo praticamente ostaggi dei sudanesi, non abbiamo neppure il controllo delle piste per gli aerei e la benzina che ci servirebbe a spostarci ci viene sistematicamente rubata».
C’è ancora tempo per agire, ma la reazione della comunità internazionale deve essere inflessibile.

L’Onu può negoziare con Al Bashir sulla composizione dei Caschi Blu (una parte li potrebbe fornire la stessa Cina, visto che è così interessata al petrolio sudanese), può discutere la natura del mandato, ma non può farsi sbattere la porta in faccia da un dispotico regime che si è già macchiato, nella prima fase del conflitto, di crimini contro l’umanità di fronte ai quali impallidiscono perfino quelli commessi in Bosnia. Se non riuscisse a imporsi a Khartoum tornerebbe a perdere buona parte del credito che si è guadagnata mettendo fine al conflitto israeliano-libanese.

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