L’Onu condanna, Pyongyang lancia altri missili

La Corea del Nord non lascia. Raddoppia. E sfida il Consiglio di sicurezza dell’Onu che lunedì notte, poche ore dopo il test atomico sotterraneo aveva votato una dura risoluzione di condanna. Ma ieri mattina Pyongyang ha lanciato due missili a corta gittata, mentre i media del regime davano fiato alla propaganda, denunciando l’America che, nonostante Obama, non ha rinunciato alla politica imperialista. Nella nottata i missili sono diventati tre o, secondo fonti di Seul, addirittura quattro con intenti sempre più provocatori, se davvero indirizzati verso alcune acque territoriali contese con la Corea del Sud.
La crisi è seria. Il mondo deve reagire e infatti il Consiglio di sicurezza ha già avviato le consultazioni per approvare una seconda risoluzione che dovrebbe proporre nuove sanzioni economiche. Ma il Palazzo di vetro, da solo, non riuscirà a piegare il leader supremo Kim Jong Il; perché la Russia, ma soprattutto la Cina non sembrano disposte ad approvare misure troppo dure. Ma non solo.
A decidere l’esito di questa crisi saranno ancora una volta gli Usa. E gli sguardi di tutti sono puntati su Obama, chiamato ad affrontare la prima vera crisi mondiale da quando si è insediato alla Casa Bianca. Fino a oggi i sorrisi, le promesse e a tratti persino le lusinghe, in Asia, in Europa, nell’America latina, in Africa sono serviti a migliorare l’immagine degli Usa. Ma non servono a fronteggiare un dittatore che guida un Paese dove decine di migliaia di persone muoiono di inedia. E che possiede la bomba atomica.
Altro che ammiccamenti, occorre una risposta forte, che a parole è arrivata. «Se la Corea del Nord vuole continuare a provocare la comunità, dovrà essere pronta a pagarne il prezzo», ha ammonito l’ambasciatrice statunitense all’Onu Susan Rice. Ma concretamente che cosa può fare Washington?
La risposta degli esperti dell’amministrazione è sconsolata: ben poco. Negli ultimi quindici anni è stato tentato di tutto. Clinton provò a blandire Pyongyang fornendo impianti per produrre energia nucleare e dal petrolio. Bush, all’indomani dell’11 settembre, citò la Corea del Nord tra i Paesi dell’Asse del male, al pari dell’Iran e dell’Irak di Saddam Hussein; quindi tentò di portarla al collasso imponendo dure sanzioni economiche e il sequestro dei beni all’estero di Kim Jong Il e dei suoi familiari.
Poi lo stesso Bush cambiò idea, imboccando la via del negoziato multinazionale, assieme alle potenze della regione e alle Nazioni Unite, che permise di raggiungere un accordo per lo smantellamento degli impianti nucleari, ora denunciato da Pyongyang.
Un’opzione ci sarebbe: gli Usa non hanno ancora applicato il blocco navale, sebbene sia stato autorizzato dall’Onu qualche anno fa. Ma Pyongyang ha fatto sapere che lo considererebbe un’aggressione e dunque un atto di guerra. È un bluff o fa sul serio? E dunque Obama è disposto a rischiare una crisi militare nel sud est asiatico che affosserebbe la speranza di una ripresa economica e lo costringerebbe a schierare le forze armate a difesa della Corea del Sud e forse anche del Giappone?
La risposta più probabile è no. E allora non resta che tentare ancora una volta il dialogo, alternando la carota e la minaccia del bastone.

Con cautela, sedando le ansie di Kim Jong Il, che teme di essere spodestato e che vorrebbe approfittare di questa crisi per passare il potere al terzogenito. Il dittatore è malato, insicuro, ansioso; e dunque meno prevedibile. Un problema in più per Barack Obama.
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