L’ora dei tagli ai ministeri per evitare una manovra bis

RomaUn’ulteriore stretta sui ministeri. L’asticella dei risparmi che il governo si aspetta dall’amministrazione centrale si sarebbe alzata fino a raddoppiare gli obiettivi che erano dati per buoni fino a mercoledì. Trenta miliardi nel triennio 2012-14, tutti da ottenere con tagli ai ministeri.
Stretta da inserire in parte nella spending review, ancora all’esame del Parlamento, e poi in un altro provvedimento da approvare in autunno. L’indiscrezione uscita ieri sera sembra in sintonia con le dichiarazioni del ministro Pietro Giarda, che giorni fa parlò di una spesa «aggredibile» pari a 100 miliardi. La cifra sembra un po’ meno in sintonia con gli obiettivi del commissario Enrico Bondi (nel tondo), che sta lavorando sulle spese di ministeri ed enti pubblici, e non si è ancora spostato dalle cifre illustrate al premier Mario Monti: 5 miliardi quest’anno, più altri 8-9 nel 2013.
Le cifre sono ancora provvisorie, come dimostrano i risparmi per la sanità che ieri sono scesi da 1,5 miliardi a un miliardo nel 2012. Niente interventi sui farmaci. Di sicuro c’è che il governo, pressato sul fronte interno dalla maggioranza e su quello esterno dalle istituzioni e dai grandi media internazionali, vuole fare di tutto per evitare il doppio aumento dell’Iva in autunno che deprimerebbe ulteriormente l’economia e farebbe peggiorare di conseguenza i conti pubblici. L’unico modo è appunto utilizzare la spending review, chiedendo sacrifici più consistenti all’amministrazione centrale dello Stato (il cui funzionamento costa ai contribuenti 283 miliardi di euro).
Governo al lavoro anche sulle altre misure. Cioè la nuova ondata di privatizzazioni di società pubbliche, valorizzazioni e cessioni immobiliari. In questo caso l’obiettivo è ridurre il debito riducendo partecipazioni in società di servizi e immobili di proprietà di Regioni, Province e Comuni. Non è un caso che si voglia partire da qui, visto che la fetta più grande del mattone pubblico è proprio quella a disposizione di sindaci, governatori e presidenti.
La palla, più che al commissario straordinario Enrico Bondi, è al ministero del Tesoro. Perché è vero che un emendamento alla spending review approvato al Senato, prevede che, i poteri della revisione della spesa pubblica siano estesi agli immobili pubblici, ma è difficile che il lavoro del manager vada un taglio agli affitti pubblici, per ridurre la spesa.
Il governo intende invece accelerare sulla vendita di asset per abbattere il debito. Ancora una volta (sono quasi dieci anni, da quando Confindustria denunciò il dilagare del neo socialismo municipale) si cerca di accelerare la dismissione delle società di gestione dei servizi pubblici.
Un mondo difficile da censire che vale circa 102 miliardi di euro e comprende più di 700 società, che danno lavoro a 240mila impiegati. Ma che, come ha certificato recentemente la Corte dei conti, sono in perdita: solo le aziende dei Comuni hanno debiti di oltre 34 miliardi e una gestione che ancora oggi non è efficiente come quella privata.
La prima tranche di privatizzazioni potrebbe essere tra i 30 e i 50 miliardi. Dovrebbero concorrere anche gli immobili attualmente di proprietà degli enti locali. Quello dei Comuni dovrebbe valere circa 220 miliardi, quello delle Province poco meno di 30, 11 quello delle regioni.

Entro un paio di settimane si saprà anche come saranno messi in vendita o valorizzati gli immobili pubblici. L’ipotesi più probabile resta quella della Cassa depositi e prestiti, ma restano ancora in campo le ipotesi di uno o più fondi immobiliari. Formule non nuove. La novità sarebbe una effettiva riduzione del debito.

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