L’orgoglio del nuovo Wembley non è il campo, sono i bagni

nostro inviato a Londra

I bagni. Ecco dove passa l’orgoglio inglese per il nuovo stadio di Wembley. Non l’arco di Foster, non il tetto che si apre e si chiude come quello della vostra cabriolet nei giorni di pioggia e nemmeno i novantamila seggiolini rossi che fanno della cattedrale londinese il sesto impianto al mondo per capienza. No, i bagni. Capirai, ce ne erano 361 nel vecchio stadio imperiale, ce ne sono 2618 in questa creatura dell’architettura prestata allo sport: non c’è spot, non c’è commento che, dopo aver fatto il rosario dei costi, non si soffermi sul particolare.
Benvenuti nella nuova casa del calcio inglese. Sette anni di monta e rismonta contro i 4 previsti, un budget annunciato (dalla società australiana Multiplex, già madre dello stadio di Sydney) di 550 milioni di euro decollato fino a 1,2 miliardi, lavori bloccati per tre mesi dopo la morte di un operaio e il crollo di una gru. È pronto da quindici giorni, la settimana scorsa è stato sverginato dagli abitanti di Brent, il quartiere che si è sorbito tutto il pandemonio per la costruzione, ricompensati con lo ius primae noctis di una partita tra scapoli e ammogliati; oggi ci mette piede l’Under 21 azzurra per il primo vero collaudo (diretta Rai2 alle 13.30) e poi il 19 maggio Wembley entrerà definitivamente nella nuova era con la finale di coppa di Inghilterra.
Così Londra ha soddisfatto ancora una volta la sua bulimia architettonica affidandosi alle visioni di sir Norman Foster, genio con lo studio nel cetriolo più invidiato dai sudditi della Regina, la torre Swiss Re, che con il suo azzardo di acciaio e vetro spazza il profilo della City. Foster ha progettato lo stadio e poi gli ha messo la sua firma: quell’arco alto 133 metri, lungo 335 e pesante millesettecento tonnellate che regge lo stadio dall’alto come fosse un burattinaio. La tiara: Foster ama chiamare così la sua invenzione. Sotto, la copertura. Tre sezioni che dovrebbero chiudersi in meno di venti minuti, anche se nelle ultime prove sono andati un po’ lunghi con i tempi, così da sollevare i primi mugugni. Proiettato verso l’alto con i suoi cinque anelli (due resi esclusivi a botte di trentamila euro a stagione) e con i 107 scalini che portano dal campo al palco reale (prima erano 36), dotato di 98 cucine e oltre 100 fast food, Wembley, però, custodisce nel suo ventre l’epopea e l’epica della vita precedente. Mischiate nelle fondamenta del nuovo stadio, impastate con il cemento armato, ci sono le pietre, i calcinacci, la polvere e la gloria delle due torri che della vecchia costruzione imperiale erano il simbolo. Le hanno abbattute nell’ottobre del 2000, piallate come il mare fa con i castelli di sabbia. La loro storia puntella il nuovo stadio. Gesto simbolico, ma in qualche modo nobile. Potevano fermarsi lì. E invece gli hanno voluto dare anche una botta di kitsch, genere in cui continuano ad andare forti da queste parti. Mancava solo il sacrario interrato. Una maglia dell’Inghilterra campione del mondo nel ’66 e una del Manchester del ’68, i dvd con la coppa Rimet sollevata da Bobby Moore, l’elmetto di uno degli operai impegnati nella costruzione, un cd di Madonna passata da queste parti e un libro di Harry Potter mai pervenuto invece sulle vecchie tribune: insomma, una paccottiglia chiusa in una campana di vetro sotto il centrocampo per custodire lo spirito dei tempi. Costruito in 300 giorni, costato 750mila sterline, inaugurato nel 1923 con Bolton-West Ham; passato dalle Olimpiadi del ’48 alle corse dei cani; dalla prima sconfitta dei Bianchi contro una squadra non britannica (6-3 per l’Ungheria di Puskas del 1953), alle cinque finali di coppa dei Campioni; dagli ottantamila in delirio per il concerto Live Aid dell’85 al tutto esaurito di fedeli per la messa di Giovanni Paolo II; dai pali in legno a quelle curve che non finivano mai tanto erano distanti dal campo; dalla finale di Coppa del mondo con il gol tarocco di Hurst ai novantamila pazzi per il wrestling che una volta all’anno traslocavano nel nord-ovest londinese per il Summerslam: ecco, di questa cosa qui non rimane più niente se una non capsula sotto terra e dei calcinacci schiacciati giù a tramandare la storia. «È grande due volte lo Stade de France» dicono, e questo gli basta per andarsene in giro a testa alta. «Questo stadio è stato un fiasco per i costi, sarà così anche per le Olimpiadi del 2012?», provocava qualche giorno fa l’Independent.
Ieri il nuovo Wembley era umido e freddo nella sua perfezione. Deve sporcarsi ed urlare, sudare e tremare. E poi sapremo.

Gigi Riva, qui due volte di scena da calciatore, passeggiava sull’erba rimpiangendo il legno e le atmosfere, «ormai Wembley è entrato nel mondo moderno, certo è bello ma come tanti altri stadi. E, visto da lontano, con quest’arco potrebbe essere qualsiasi cosa, anche un salone del mobile». Poi, scappando dal campo per fumarsi una sigaretta, si è arreso: «Ma forse mi rompe solo le palle invecchiare».

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