L’ossessione della mafia al Nord Il clan non c’è? La toga lo inventa

Nel doveroso impegno delle forze di polizia e della Procura a dare la caccia al crimine organizzato, può accadere a volte di vedere la mafia anche dove la mafia non c’è. Così può accadere che tredici persone, tra cui una giovane avvocatessa, un imprenditore rampante e un ex consigliere comunale, vengano portati in aula con l’accusa di avere costituito la testa di ponte di un clan camorristico nella società civile. E che alla fine il tribunale stabilisca non solo che i tre «colletti bianchi» non erano al soldo del clan, ma che il clan neppure esisteva. E che la storia su cui si erano concentrati gli sforzi della Procura era un garbuglio di affari magari poco commendevoli: ma ben lontani dall’incarnare il reato di associazione mafiosa, così come lo prevede l’articolo 416 bis del codice di procedura penale.
In meno di due settimane dalla sentenza, il giudice Aurelio Barazzetta ha depositato le motivazioni della sentenza con cui il 2 marzo ha mandato assolto Enzo Guida, fratello di Nunzio Guida che negli anni Ottanta e Novanta fu il proconsole della camorra a Milano, e tutti i suoi coimputati. Secondo la Direzione distrettuale antimafia, il clan capitanato da Guida aveva messo a segno attività di estorsioni e riciclaggio nel più puro stile mafioso. Ma, spiega la sentenza, quando si parla di mafia non si può stare nel generico, perché l'associazione mafiosa è un reato preciso: e invece in questo caso «si è ricopiata nel testo dell'incolpazione la formula normativa, astenendosi dallo specificare quale fosse la fonte di tale capacità in grado di creare una condizione di assoggettamento e di omertà».
Scrive Barazzetta: «L’impiego de metodo mafioso ha come caratteristica intrinseca quella di una certa diffusività dell’alone criminale della consorteria»: ma «dalla vicenda in esame nula di tuto cio traspare, e men che meno l’afflato associativo».
Il clan Guida era accusato di avere preso il controllo, grazie al proprio potere di intimidazione, in una serie di attività commerciali al «Girasole» di Lacchiarella, di un famoso ristorante di Peschiera Borromeo, di un bar di via Santa Tecla e soprattutto della Diodoro Costruzioni, una robusta azienda immobiliare. Ma gli episodi vengono smontati uno per uno dalla sentenza: si parla di prove «di scarsissimo peso e significato» «non c’è traccia del metodo mafioso in tutti i servigi evidenziati dagli inquirenti», «non è affatto provato che il ristorante San Bovio sia stato acquisito o comunque gestito da Guida». Del titolare della Diodoro si scrive: «Niente avvalora l'idea che Pierino Zammarchi sia stato un complice dei mafiosi, piuttosto traspare che egli ne è stato in qualche modo vittima». E sul ruolo di Emilio Santomauro, ex consigliere dell’Udc a Palazzo Marino ma anche ex della figlia di Enzo Guida: «Gli elementi acquisiti non possiedono una diretta rilevanza in ordine alla prova del metodo mafioso, piuttosto trova o esauriente e convincente spiegazione in pregressi rapporti di carattere personale e di amicizia».
Un invito, insomma, ad andarci più cauti la prossima volta.

Che assume toni severi quando si affronta la posizione dell’avvocatessa, cui la Procura rinfacciava anche di avere assistito la figlia del boss Guida quando venne ricoverata in clinica: «occuparsi di una ragazza che aveva bruscamente interrotto un rapporto affettivo per lei significativo e che forse anche per tale ragione era andata incontro ad una pesante condizione di tossicodipendenza non significa dare il proprio consapevole e rilevante apporto ad una associazione mafiosa. Equivale a sostenere con la propria vicinanza umana una persona che l'esistenza ha fatto incontrare e che si stima che abbia bisogno di un sostegno».

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