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L’ultima farsa del Pd: fare un dibattito sul Pdl

RomaSarà perché, come dice spietata la veneziana Marta Meo, «siamo un partito in preda all’horror vacui: non abbiamo davanti né elezioni né congressi, e non sappiamo più di cosa parlare». Fatto sta che l’argomento su cui la discussione si è accesa, nella lunga direzione Pd di ieri, è quello che succede in casa altrui, nel Pdl.
Sotto sotto tutti, nel Pd, fanno il tifo perché il Cavaliere resti in sella, per evitare temibili elezioni anticipate. Però sul come evitarle e cosa fare le opinioni divergono. «Siamo passati dalla svolta di Salerno alla svolta di Valmontone, che però è uscita sconfitta dalla direzione Pd», ironizzava ieri Paolo Gentiloni, riferendosi al luogo alle porte di Roma dove venerdì Massimo D’Alema e Dario Franceschini si sono accapigliati sul dialogo con Gianfranco Fini.
D’Alema ha confidato la sua nostalgia per la «vituperata Prima repubblica», che «col suo sistema parlamentarista e consociativo» fece «riforme profonde». Ha ribadito che il bipolarismo è «da superare», asserendo che è in crisi «il sistema dell’alternanza e del maggioritario». E ha definito «scemenze», da lasciare ai «professionisti della scemenza» (i giornalisti, che scendono ogni giorno di più nella considerazione dalemiana), le interpretazioni secondo cui lui avrebbe aperto ad un governo di emergenza anti-berlusconiana con l’ex leader di An. Ma il presidente della Camera, ha spiegato, resta un «interlocutore» di cui «non si può non tenere conto»,e con il quale bisogna trovare «convergenze utili», viste le cose «interessanti» che dice su «bioetica, immigrazione, riforme». «Non vorrei che per eccesso di zelo in difesa del bipolarismo, qualcuno gli rimproverasse di dar fastidio a Berlusconi».
Il leader della minoranza, Franceschini, replica piccato, ricordandogli che il presidente della Camera non lavora per il sol dell’avvenire e le magnifiche sorti del centrosinistra, ma «fa una battaglia per la destra nazionale»; e che bisogna evitare di «fare un torto a Fini coinvolgendolo in scenari confusi».
Tra i due litiganti si inserisce il segretario: un Pierluigi Bersani «avvolgente», come lo definisce Arturo Parisi, che cerca di tenere unita la baracca e di ricucire gli strappi con la minoranza, dando un colpo al cerchio D’Alema e uno alla botte Franceschini, e spiegando che il sistema bipolare è un «paletto» inviolabile che va difeso fino in fondo. Ma che se Berlusconi arrivasse ad una «forzatura plebiscitaria» sulle riforme, allora sì che servirebbe una «convergenza repubblicana» con chi, da Fini a Casini, vuol «difendere la Costituzione». La minoranza, soddisfatta delle aperture del segretario, parla di «asse Bersani-Franceschini» per far intendere che D’Alema, con le sue alchimie di Palazzo, è isolato. «Ha parlato più a lungo di tutti e solo per ripetere le stesse cose che dice dal ’94», si spazientisce la Meo.
La proposta di Prodi (tutto il potere ai segretari regionali), che tanto rumore ha fatto qualche giorno fa, è già finita nel dimenticatoio: nessuno, a parte il generoso Piero Fassino, si è ricordato di evocarla. «Prodi? Nessuno lo ha nominato», conferma Parisi. Sulla questione giustizia, che pareva dover spaccare il Pd dopo l’apertura alle riforme del responsabile di settore Andrea Orlando, la discussione fila liscia. Orlando, su cui erano piovute accuse di «intelligenza col nemico» da mezzo partito, compresa Rosi Bindi, si è preso la difesa del segretario («Nessun tabù a discutere di giustizia»), la benedizione di Franco Marini («È bene avere una nostra proposta») e gli applausi di molti. A prendersi invece parecchi fischi è stata la presidente Bindi, che prima ha aperto la riunione dando la sua solidarietà al Papa, a Roberto Saviano e a Emergency (dimenticando Sandra Mondaini).

E poi - vista la lunga lista di iscritti a parlare - ha annunciato che erano troppi e che avrebbe dato la parola solo a quelli «politicamente rilevanti». «E lo decide lei, chi sono?», si infuria Paola Concia, uno dei molti nomi depennati d’imperio.

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