L’ultima guerra: la Bindi talebana che caccia Rutelli

L’ultima guerra: la Bindi talebana che caccia Rutelli

Chi la conosce dice che Rosy Bindi (nel tondo) è simpatica e un po’ cattivella. Ma l’acido ultimatum a Francesco Rutelli lanciato ieri dalle colonne della Stampa è un macigno che lascia di sasso. «Se non è convinto del Pd ne tragga le conseguenze».
Rosy e Francesco si detestano da un bel po’. Nel 2002 la prima scintilla, dopo un voto in aula pro missione militare in Afghanistan imposto all’Ulivo dall’ex sindaco di Roma. Ora che lo sport nazionale democratico è colpire i nemici del proprio candidato alla segreteria (la Bindi sta con Pierluigi Bersani, Rutelli con Dario Franceschini), l’ayatollah toscana si è ingolosita: troppo buona l’occasione per regolare i conti con lui, primo sponsor di «vice-disastro». Non è il Far West, qui sembra di stare sul set del film Highlander. Dove gli immortali del Pd, apparentemente immuni alla raffica di sconfitte incassate, si sfidano a duello finché non ne resta solo uno.
Franceschini ha provato a contrattaccare: «Non si parla così a un fondatore del partito. Dobbiamo toglierci dalla testa quell’idea pericolosa per la quale c’è qualcuno che vince e gli altri stanno fuori». Il suo novello scudiero, Mario Adinolfi, ha tirato subito in ballo Pierluigi Bersani: «Che cosa ne pensa? È d’accordo?». Ricevendo in cambio un imbarazzato silenzio. La guerra è guerra.
Il terreno di scontro dietro la corsa alla leadership Pd è il peso dei cattolici e le prossime alleanze. La sedicente «cattolica adulta» Bindi, la talebana che però china il capo su aborto ed eutanasia, guarda a sinistra come Bersani e Massimo D’Alema. L’ex radicale, in gioventù abortista e anticlericale, oggi è a capo dei teodem ed è folgorato dall’alleanza dell’Udc. Per tutti e due, nel partito democratico che verrà, non c’è posto, dice la Bindi: «Se non è convinto del progetto è meglio dirlo con chiarezza e tirarne le conseguenze. Lasciare il Pd? Valutazioni che spettano a lui. A noi spetta esigere lealtà e chiarezza».
Il ragionamento della Bindi, condito dal solito politichese, è: Casini si sente a casa propria nel centrodestra ed è lì che vuole tornare. «Noi invece dobbiamo diventare il motore di una nuova alleanza riformatrice e di governo chiaramente alternativa a Berlusconi, senza ripercorrere gli errori che ci hanno portato al 26%». Guardando al centro? «Non solo. Rutelli - accusa l’ex ministro della Sanità - deve mettersi in testa che il Pd non può che essere un partito nel quale si riconosca anche la sinistra. Altrimenti viene il dubbio che si tratti di un pretesto». Quale? Spaccare il partito per non morire socialdemocratici proprio adesso «che quel modello è in crisi».
È questo il vero vero tormentone dell’estate democratica. Un incubo che nemmeno il «patto prematrimoniale» firmato dai tre contendenti, cioè l’impegno a «riconoscere il risultato del congresso e collaborare alla vita del partito indipendentemente da chi vincerà», può scacciare.

No, se deve spaccare il Pd «dopo», meglio che se ne vada subito, è la sintesi del Bindi-pensiero. Proprio lei che solo a gennaio diceva «se fare chiarezza significa tagliare fuori qualcuno, allora io dico che non sono d’accordo». Ne resterà soltanto uno.
felice.manti@ilgiornale.it

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