Roma - Chiunque tranne Berlusconi. Le opposizioni cercano un leader, possibilmente di centrodestra. Il sogno dei perdenti è sempre lo stesso: il Cavaliere disarcionato attraverso un gioco di palazzo. Come ai bei tempi della Prima Repubblica. Un nome vale l’altro: Monti, Montezemolo, Draghi. Oppure Gianni Letta, Alfano, Maroni. A uscire nuovamente allo scoperto, il sempre meno super partes presidente della Camera. Il quale ieri, in versione leader futurista, ha lanciato una vecchia proposta dalle colonne di Repubblica: buttare giù Berlusconi, mettere un altro al suo posto a palazzo Chigi, va benissimo Maroni, con l’appoggio di Fli e Udc e, perché no?, anche del Pd. Un’alchimia da Monopoli: viale Gran Sasso e viale Traiano in cambio di parco della Vittoria. Un rimescolare le carte, senza il jolly scelto dagli italiani. Tutto, come sempre, sulla testa degli elettori. Un’offerta bislacca già rispedita al mittente dallo stesso Maroni.
Le inutili avance di Fini a mezzo stampa, in ogni caso, dimostrano due cose: l’incoerenza politica dell’ex (coaf)fondatore del Pdl; il vizio italiota di giocare coi voti dei cittadini. Sul primo punto: a parole, evidentemente solo a parole, la ragione sociale del Fli era quella di contrastare il peso eccessivo del Carroccio nell’alleanza che sostiene il governo. A Bastia Umbra, 7 novembre 2010, Fini sputò sui leghisti. Testuale: «Per troppo tempo si è sottovalutato l’egoismo strisciante territoriale che è il motore della Lega». Peggio: «A loro non interessa nulla di ciò che accade sotto il Po». Ma come? Fini esce dal Pdl perché accusato di essere a rimorchio del Carroccio e poi oggi offre a un leghista la poltrona di palazzo Chigi? Embè? Vale tutto purché si spari a Berlusconi. In realtà l’offerta della premiership al colonnello Bobo non è una novità: era stata fatta esattamente quattro giorni dopo Bastia Umbra, l’11 novembre, in un incontro a Montecitorio con i vertici del Carroccio. Fu fumata nera per via dell’ipotesi allargamento ai centristi. A Bossi venne l’orticaria: «L’Udc via, al mare», grugnì il Senatùr. E Berlusconi: «Fini mi sfiduci in Aula, alla luce del sole». L’asse Silvio-Umberto resse e resse anche il governo col voto del 14 dicembre.
Sul secondo punto, quello della ricerca spasmodica di un altro premier, di nomi se ne sono fatti mille e mille se ne faranno. Si è corteggiato Montezemolo, Draghi, Monti e persino la Marcegaglia. La formula è una «cosa» che ha tanti nomi: governo tecnico, del presidente, di unità nazionale, di salute pubblica, di transizione. Comunque un pastrocchio. Un esecutivo che nasca senza passare dal via delle urne. È stato evocato nel maggio di un anno fa da Casini, riproposto ad agosto da Bersani, e aleggia ancora adesso. Un ribaltone, insomma. L’importante è mandare a casa quel Belzebù che ha osato vincere le elezioni. Vecchio trucco della Prima Repubblica.
L’altro usuale espediente utilizzato dalle opposizioni per respingere la critica di ribaltonismo è quello di offrire la poltrona a qualcuno vicino al premier. È accaduto migliaia di volte con Gianni Letta; centinaia con Tremonti; decine con Maroni. In passato, in Transatlantico, s’è sentito spesso il totopremier: Berlusconi se ne vada e lasci il testimone. Gianni Letta andrebbe bene perché ha ottimi rapporti col Colle. Poi la sua figura s’è appannata e quindi meglio di no. Berlusconi sloggi e faccia posto a un altro. Tremonti andrebbe bene perché ha ottimi rapporti con gli economisti oltrefrontiera. Poi anche lui s’è indebolito per via della faccenda Milanese per cui meglio di no. Resta Maroni, collettore dei mal di pancia della Lega nei confronti del Pdl. Per cui via con le lusinghe interessate e le moine calcolatrici. Le quali smascherano l’unica realtà.
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