L’ultima tentazione degli svedesi: svoltare a destra

Marcello Foa

Dopo dodici anni la Svezia questa sera potrebbe dare il benservito alla sinistra. Lo indicano gli ultimissimi sondaggi che danno la coalizione di centrodestra in vantaggio di 3-4 punti percentuali; lo dice l’umore di un Paese che, sebbene ricco e felice, sembra percorso da una lieve, persistente insoddisfazione. La Svezia oggi vota per le politiche, ma non sarà una rivoluzione. Innanzitutto perché il distacco è minimo. Lo ammette il leader dell’opposizione, il 41enne Fredrik Reinfeldt, che ha pronunciato comizi fino alla tarda serata di ieri e che questa mattina percorrerà le strade di Stoccolma per convincere gli ultimi indecisi all’entrata dei seggi. Lo spera il premier Goran Persson, che invita l’opinione pubblica a dubitare dei pronostici preelettorali e che in cuor suo spera di ripetere l’exploit di Silvio Berlusconi alle elezioni italiane, possibilmente con 25mila voti a favore anziché contro. Ma anche qualora i socialdemocratici dovessero perdere, il Paese non rinnegherebbe la sua Fede nell’assistenzialismo.
Inutile aspettarsi proclami liberisti dall’unione dei quattro partiti di centrodestra, che ha addirittura scelto di chiamarsi Alleanza dei lavoratori, manco fosse un sindacato. «Questa è la Svezia che amiamo. E i cambiamenti devono essere compiuti a piccoli passi», non si stanca di ripetere Reinfeldt, che chiede un mandato «per costruire, non per distruggere» e che pertanto ha tolto dal programma ogni riferimento ai tagli alle tasse (le più alte al mondo), alla riduzione dell’enorme rete di protezione sociale, alla fine della concertazione con i sindacati. Vuole presentarsi come un affidabile leader di centro.
Una scelta obbligata, in un Paese che non vuole riformare il proprio sistema, ma che paradossalmente potrebbe costargli cara; perché a forza di spostarsi a sinistra rischia di perdere il suo Dna. «L’opposizione dice “siamo socialdemocratici anche noi”. Ma allora è meglio l’originale della brutta copia», ironizza Persson nei discorsi, durante i quali ammonisce gli elettori a non fidarsi delle promesse dei liberali. Cerca di alimentare la paura e in tal modo far scordare quello che è il suo punto più debole: il 57enne Goran guida il governo dal 2006. Dieci anni. Troppi per un leader politico, tanto più che, sebbene l’economia svedese sia in crescita, la situazione sarebbe meno rosea di quanto appaia dalle cifre ufficiali. Ufficialmente la disoccupazione è al 5,5%, in realtà, depurata dei congedi e dei programmi assistenziali, supererebbe il 20%. In Svezia esisterebbe un esercito di nullafacenti remunerati dallo Stato.
Ed è proprio questa contraddizione, percepita nella vita di tutti i giorni, a indurre gli elettori a considerare il cambio della guardia. In verità ci sarebbe un altro argomento, a cui l’opinione pubblica si dimostra molto sensibile: quello degli stranieri. Come accade in altri Paesi europei, molti svedesi ritengono che ne siano arrivati troppi in troppo poco tempo. Ma in queste settimane né il centrodestra né i socialdemocratici ne hanno parlato. Un solo partito, di estrema destra, ha rotto il tabù. Il suo giovanissimo leader, Jimmy Akesson, che ha solo 27 anni, lo ha posto al centro del suo manifesto politico.

Nella civilissima Svezia gli estremisti non cavalcano il populismo di Le Pen, né sfilano con i crani rasati, come accade in Germania, ma scelgono di chiamarsi Svedesi Democratici e anziché reclamare espulsioni di massa, chiedono politiche di integrazione più efficaci incentrate sui valori culturali e civili del Paese.
I sondaggi li danno sotto lo sbarramento del 4%, ma sono sempre più popolari tra i giovani. Potrebbero essere loro la vera sorpresa delle elezioni di oggi.
marcello.foa@ilgiornale.it

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