L’ultimo addio a Gianni Pennacchi, più amico che collega

A riempire lenzuolate di parole ci ha messo una vita. A riempire una chiesa di amici ci ha messo pochi minuti. Ha tenuto banco per l’ultima volta, Gianni. Come quando nel corso delle assemble di redazione sbraitava contro tutti lasciando furibondo prima del tempo lo stanzone e gli altri attoniti: «Fate come c... ve pare!». Così ha fatto ieri: lui se n’era andato e tutti erano lì increduli, allibiti, quasi sperando che tornasse. Ma non tornerà, stavolta no, Gianni Pennacchi, il nostro collega e amico morto all’improvviso nella notte tra domenica e lunedì, qualche giorno dopo essere caduto mentre prendeva l’albero da addobbare per Natale, per fare felice l’adorata piccola Larissa, che spesso abbiamo visto trotterellare dietro di lui in redazione, dopo quell’adozione che aveva sporcato con una nota languida l’insopprimibile sarcasmo del suo bel viso. E chissà se la sua famiglia l’ha poi fatto, quell’albero maledetto. Se lo faranno più.
C’era gente dentro e fuori la chiesa di piazza Sempione dove ieri Gianni ha ricevuto l’ultimo saluto, in una mattinata insopportabilmente uggiosa come la sua assenza. Amici e colleghi - due sinonimi, in questo caso - ciascuno con i suoi ricordi, con i suoi aneddoti, con almeno un piccolo senso di riconoscenza per un uomo che amava farsi i fatti degli altri e far fare agli altri i suoi, dare consigli e provare a insegnare quella roba infida che è la vita. Un uomo pieno di difetti e per questo quasi perfetto nella sua umanità, quasi inarrestabile nella sua - pare strano dirlo ora - vitalità. Tra i tanti esponenti del giornalismo colleghi vecchi e nuovi di questo giornale, dove lui aveva trascorso gli ultimi anni della professione e dove era inevitabilmente amato, al punto che ancora adesso stentiamo a immaginare che cosa saranno queste stanze senza la sua ironia puntuta, i suoi litigi per pezzi di cui non condivideva il taglio, la sua richiesta di altri cinque minuti per scrivere oppure di un goccetto di vino, oppure di entrambe le cose insieme, i suoi sorrisi più dolci per le colleghe donne. C’erano quasi tutte le persone che negli ultimi vent’anni hanno gravitato dapprima per piazza di Pietra, poi per via dei Due Macelli e infine per via Terenzio; e poi il direttore del Tg1 Augusto Minzolini, Gaetano Savatteri del Tg5, Aldo Cazzullo, Pietrangelo Buttafuoco, quel Luca Telese da qualche mese volato via dal Giornale ma con il quale Gianni duellava verbalmente da anni. E tanti altri di tutti i giornali. E anche tanti politici da lui non sempre trattati con i guanti. Molti lo hanno voluto ricordare in queste ore, altri hanno voluto salutarlo di persona: Gianni De Michelis, Bobo Craxi, Donato Robilotta, la signora Mastella.
C’era gente dentro e fuori la grande chiesa perché dentro tutta non c’entrava.

C’erano occhi lucidi, e lacrime diventate torrenti ai singhiozzi della povera piccola Larissa. C’era la voglia di non andarsene, dopo. Poi, che c’entra, ce ne siamo andati, ciascuno «a fa’ come c... je pare». Ciao, Gianni.

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