Cultura e Spettacoli

L’ultimo boogie di PARISE

Raccolti in volume gli scritti saggistici dell’autore vicentino che coprono l’intero arco della sua vita, dagli anni del folgorante esordio narrativo alla piena maturità. Immuni dall’impegno ideologico ma non disimpegnati

Quando Goffredo Parise seppe di essere malato, una di quelle malattie che non perdonano e che via via mutilano il tuo corpo, ti sfiancano e ti svuotano, prese la cosa come un tradimento e una vergogna. Se c’era un cantore della vita, un innamorato dell’esistenza, questi era lui: l’idea che ne venisse ricambiato in quel modo gli riusciva intollerabile, una sorta di affronto personale, e di qui un’amarezza non malinconica, ma rabbiosa. «Bisogna maltrattarla la malattia» diceva, maltrattarla sempre e non parlarne mai.
Chi ha letto i due volumi di Sillabario, il capolavoro di Parise, scritti a un decennio di distanza l’uno dall’altro, vede subito la felicità del primo e lo straziato dolore del secondo. Fra l’uno e l’altro se n’era andata la luce della sanità fisica ed erano cambiati i colori, gli umori, i sapori. Sillabario n°1 è un incredibile susseguirsi di istanti magici, di stupori infantili, di amori che vanno e vengono, di bagni di mare e di vini bianchi gelati, di giovinezze che si inseguono o si ricordano e insomma c’è il piacere confuso e sorpreso dello stare al mondo, laddove Sillabario n°2 è attraversato dall’odore del sangue e da quello della morte, dall’odio e dal piacere violento di fare male. Miracolo incomprensibile, la vita si era fatta incubo quotidiano e se non la potevi più cantare, non ti restava altro che maltrattarla, la malattia di vivere, appunto.
Nel 1986, alcuni mesi prima di morire, Parise tenne un discorso all’università di Padova in occasione del conferimento della laurea ad honorem. Il testo di quell’intervento, apparso sul Corriere della sera nel febbraio dello stesso anno, venne intitolato Quando la fantasia ballava il “boogie”, ed è un po’ il suo testamento letterario. Adesso Adelphi pubblica, con quello stesso titolo (pagg. 240, euro 20), una raccolta del Parise saggista che abbraccia un trentennio della sua vita: dal tempo del folgorante esordio narrativo con Il ragazzo morto e le comete, scritto poco più che ventenne, alla sua piena maturità di scrittore bruciata dalla leucemia quando non ne aveva ancora compiuti sessanta.
Parise è una figura anomala nel nostro panorama letterario. Esordì nel decennio postbellico, quando realismo e neorealismo la facevano da padroni, con un romanzo visionario e fantastico, fu immune, per una sorta di grazia ricevuta, a ogni lezione di impegno ideologico o, peggio, politico, eppure non lo si può definire un artista disimpegnato o estraneo al proprio tempo, ricercò nella scrittura una sorta di ritmo poetico, ma non cadde mai nell’accademismo fine a se stesso o nella prosa d’arte, tradizionale o d’avanguardia, che pure fu una costante di certa letteratura italiana.
La sua anomalia si vede anche dal tipo degli interventi giornalistici via via pubblicati, nei quali è evidente il desiderio di parlare solo di ciò che veramente lo interessava, evitando lo scoglio dell’attualità, della presenza e dell’intervento sui temi di volta in volta in voga. Il giornalismo non fu per lui una professione, né una vocazione, come accadde a Moravia, a Pasolini, a Calvino, a Vittorini: fu un ripiego di cui avrebbe fatto volentieri a meno, perché lo distraeva dalla sua passione più vera, quella del narratore puro. Unica eccezione furono i reportage bellici (assenti in questo volume) dal Vietnam, e in genere i reportage di viaggio, gli uni e gli altri legati a quel coté avventuroso della sua vita e della sua fantasia, che era il coté di un ragazzino di provincia venuto su con la lettura di Salgari e poi, adolescente, di Somerset Maugham e di Graham Greene, e quindi un mondo dove esotismo, spleen, grandi spazi, vestigia coloniali, si mischiavano nel nome di un’altra letteratura, un’altra vita, la ricerca di un Altrove dove l’azione sublimasse la scrittura, ovvero la scrittura divenisse azione. Anche questo spiega perché in Quando la fantasia ballava il “boogie” faccia così spesso la sua comparsa il nome, il magistero e il ricordo di Giovanni Comisso. Conterranei, l’uno di Vicenza, l’altro di Treviso, li univa quel certo gusto panico della vita dove era assente l’ombra del peccato e insistente la ricerca del piacere, e l’idea che l’esistenza fosse già di per sé così affascinante, nella sua esplorazione, che non ci fosse il tempo per interrogarla dal punto di vista sociale, ideologico, politico. La differenza, semmai, consiste nel tributo da pagare alla scrittura in quanto tale: e lì dove Comisso rimase al fondo un dilettante, uno per il quale lo scrivere era un dono destinato nel tempo a rivoltarglisi contro, una facilità che diverrà faciloneria, una immediatezza che si trasformerà in tic, mania, imitazione, Parise al contrario sarà un professionista a tutto tondo, in grado di costruire romanzi e racconti esemplari, sempre lavorando la parola al limite della perfezione, mai accontentandosi dell’andare a orecchio, ma servendosi di uno spartito composito e sempre più difficile, e però stando attento a non confondere la professione con il mestiere, l’ispirazione con l’abitudine. «Per scrivere, per esprimersi, per trovare lo stile senza difficoltà come si trovano le note di un pianoforte è necessario trovarsi in quel particolare stato d’animo non facile da descrivere, che non è necessariamente felice ma non può e non deve essere assolutamente infelice. Deve essere una specie di limbo di lieve e diffusa esaltazione, in cui nel suo complesso ti piace la vita e ne hai al tempo stesso nostalgia».
La danza della fantasia
Il titolo del libro, un bel titolo, riprende un concetto di quel discorso all’università di Padova, e vale la pena di spiegarlo un po’ perché in esso c’è una dichiarazione di intenti e un’analisi della realtà culturale italiana del secondo dopoguerra. All’inizio di quel decennio, dice Parise, «mi pareva di dover rappresentare la libertà, il caos, su quella lieve spirale di fumo del romanticismo finito proprio pochi mesi prima tra le macerie. Mi attraevano le cose e la loro sostanza organica e non obbligatoriamente letteraria, l’odore della vita e delle sue stagioni, passando attraverso testi diretti. Mi pareva che la poesia dovesse assumersi la prosa e viceversa, mi pareva che il realismo, il naturalismo della letteratura italiana e no dovessero aprirsi e scomporsi al di là delle regole tradizionali così come la canzonetta italiana si era aperta al boogie. Mi pareva che la sensazione soggettiva, la sempre inesatta pressione del sangue, cioè il sentimento individuale non potesse prestarsi al alcuna oggettivazione. Era un’idea della letteratura in qualche modo romantica, in qualche modo rivoluzionaria, che del resto era stata troppo sbrigativamente proposta dai futuristi ma in modo illuminante dalla pittura di De Chirico».
Questa idea letteraria fece paradossalmente di Parise il sopravvissuto di un mondo che per età non aveva conosciuto, quello del primo dopoguerra, e allo stesso tempo l’esponente di un’avanguardia intellettuale che con lui si apriva e però in lui si esauriva. Da questo punto di vista la sua predilezione per poeti come Montale, romanzieri come Gadda, pittori come De Pisis, una predilezione che metteva insieme l’uomo e l’opera, affondava le radici nel gusto di un’Italia che non c’era più, la buona borghesia delle professioni, un certo decoro borghese, l’idea che scrivere fosse un po’ un vizio, un po’ un dovere, un mondo dove allo scrittore non si chiedevano messaggi, ma, appunto, libri, il piacere, il miracolo e il mistero della scrittura. Allo stesso modo, un romanzo come Il prete bello ha più debiti con il realismo magico di un Palazzeschi di trent’anni prima che non con un Pratolini, un Bernari, un Ottieri a lui coevi e impegnati nel ritrarre e nel deprecare l’Italia del loro tempo. Quando anche Parise cercherà di essere uno scrittore attuale, al passo con il proprio tempo, corifeo di quella letteratura industriale dell’inizio anni Sessanta, ciò che ne verrà fuori sarà il suo libro più brutto, Il padrone, ritratto neppure edulcorato di Livio Garzanti e del suo feroce snobismo editoriale.
La stagione del boogie, del resto, si interruppe proprio allora: «Poi passarono gli anni e la libertà aveva fatto tutto quello che doveva fare. Aveva ricostruito le nostre vesti, il nostro paese. L’azione era finita, cominciava l’amministrazione. Per tutto. Conscio, subconscio, realismo e Realpolitik, strategie e programmi, entrarono a far parte della letteratura, l’aria, il vento della libertà, la polvere delle sue macerie e il battito del martello pneumatico cessarono e furono sostituiti dall’amministrazione, da quello che Montale chiamò “l’ora della focomelia intellettuale”, dell’“ossimoro permanente”... Il mood è lontano, sempre più lontano e in ogni caso ce ne fu uno e uno solo... Se lo stile ha degli eredi, l’arte è come una farfalla, senza eredi e capricciosa, si posa dove e quando vuole lei». Nella letteratura come industria e nella scrittura come impegno e/o politica, Parise erigerà a propria difesa quel duplice volume dei Sillabari che resta ancora oggi uno dei vertici della narrativa di quegli anni.
Al riparo dal trombonismo
In Quando la fantasia ballava il “boogie” ci sono ritratti esemplari, Comisso, De Pisis, Gadda, Piovene, Longanesi, Montale, Capote, passioni letterarie durature, Hemingway, Simenon, Maugham, qualche errore di valutazione, Prokosch, molto buon senso e rifiuto di lasciarsi trascinare dallo Spirito del tempo, dal conformismo delle idee (si vedano le polemiche contro lo scrivere difficile o sull’aria del ’68). Ne emerge il ritratto di uno scrittore felicemente atipico, giustamente conscio delle proprie capacità per non farsi imporre stili e preconcetti da nessuno, capace di un’autoironia che lo metteva al riparo da qualsiasi trombonismo del mestiere. Il ritratto dolce-amaro di un italiano anomalo.
In Caro Goffredo (Minimum Fax, pagg. 92, euro 7), la raccolta di saggi che Raffaele La Capria ha dedicato all’amico scomparso, questa anomalia, curiosità, ironia, scetticismo, apertura al mondo e capacità di stupirsi, idiosincrasia alle mode e puntigliosa difesa delle proprie ragioni artistiche, è resa in maniera esemplare, così come assolutamente pertinente è l’insistito richiamo a Ernest Hemingway.

In nessun altro autore italiano c’è stata quella medesima fisicità del mangiare e del bere, l’attenzione naturale per il mare e per la neve, il piacere per la caccia e per la segreta bellezza femminile, un vitalismo estetico soffuso di malinconia, la capacità di godere anche con poco, l’idea di essere una sorta di divinità pagana, incosciente, amorale e come immortale, un attimo prima che la folgore del Tempo ne facesse cenere.

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