Roma - Lui, comunque, non si dimette: «La presidenza della Camera non è nelle disponibilità del presidente del Consiglio». Camicia bianca, cravatta lilla, completo grigio, umore più scuro. Gianfranco Fini ieri mattina uscendo di casa si sarà domandato se stava anche per accomodarsi fuori dal partito di cui è stato il cofondatore. Ben prima della piccata replica al documento di censura dell’ufficio politico del Pdl, che attaccherà in serata proprio il suo ruolo istituzionale, il presidente della Camera lavora tutto il giorno con i suoi fedelissimi alle strategie sul come reagire a eventuali defenestrazioni e deferimenti. Sullo scranno più alto di Montecitorio, con Silvio Berlusconi seduto pochi metri sotto di lui, Fini medita un’idea clamorosa: in caso di «divorzio» imposto, lui e i suoi porterebbero la vicenda in tribunale.
Gianfranco comincia serrando le file dei suoi fedelissimi: «Se sospendono dal Pdl uno di noi, mi autosospendo anche io». Ma mantiene comunque i piedi puntati nella maggioranza, giurando di restare fedele al governo in carica e al patto con gli elettori, anche in caso di «strappo», per quanto violento. Così la giornata di ieri si gioca, sui due fronti contrapposti interni al Pdl, tra riunioni più o meno segrete, conte più o meno ottimistiche per i gruppi autonomi, messaggi trasversali. Con Fini e i finiani che, appunto, fanno filtrare l’ipotesi di rivolgersi alla magistratura, nel caso la maggioranza del Pdl avesse scelto linea dura ed espulsioni. Una possibilità venduta come «extrema ratio» dai boys di Generazione Italia e dallo stesso leader, ma che ha inevitabilmente contribuito ad alzare la temperatura nel giorno della «pax mancata».
Il messaggio di pace lanciato a Silvio Berlusconi dalle pagine del Foglio, con Fini che confessava a Ferrara la sua voglia di «resettare», s’era bruciato prima ancora di arrivare in edicola. Stroncato dal «troppo tardi» serale, sibilato dal premier. E Fini si è detto «incredulo» proprio della totale chiusura al dialogo da parte del Cavaliere, incontrando i deputati a lui fedeli ieri mattina, a margine dei lavori d’Aula. «Siamo stati sempre fedeli alla maggioranza e al governo - avrebbe sospirato il primo inquilino di Montecitorio - io mi spendo per ricucire lo strappo. Ieri ho teso la mano a Berlusconi e ho ricevuto uno schiaffo in faccia».
Così ecco la minaccia della soluzione giudiziaria per una bega squisitamente, profondamente politica. Presentare ricorso con procedura d’urgenza, previsto dall’articolo 700 del codice di procedura civile, per chiedere in tribunale l’eventuale reintegro nel partito degli epurati. Come gettare benzina sulle fiamme per domare un incendio. Anche se la giustizia chiamata in causa sarebbe quella civile, nel Pdl sottolineano come un ricorso alle toghe da parte dei finiani suonerebbe come un altro messaggio diretto al Cavaliere. Che non ha mai risparmiato critiche all’uso politico della giustizia.
La minaccia dell’«arma segreta» non basta come deterrente.
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