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L’ultimo viaggio di Sojourner gigante atteso a Rieti dal destino

Un incidente stradale ha spento l’«Arcobaleno». Fece grande la città che aveva appena ritrovato

L’ultimo viaggio di Sojourner gigante atteso a Rieti dal destino

Oscar Eleni

L’albero sulla strada del Terminillo deve aver visto il suo sorriso compiaciuto, quella calma ritrovata dopo tanto tempo nella contrada di Rieti, lontano da cuscinetti a sfera, dal declino che tocca ai campioni che non vogliono far di conto, lo ha cercato e gli ha detto: vieni Willie, ti aspettano.
Willard Arcobaleno Sojourner ha scelto la notte, una strada che aveva fatto tante volte quando, dopo una partita, doveva scaricare la tensione, cercare una luce diversa da quella che si trova in un palazzetto, per andarsene. Sentiva il richiamo, sapeva che appena uscito da quei rottami lo avrebbero portato nello stesso giardino dove lo aspettava, con la calma di sempre, l’ironia di ogni giorno passato insieme, Elio Pentassuglia, l’allenatore di Brindisi che su quell’arcobaleno aveva fatto camminare la gioventù dorata di Rieti, da Brunamonti a Zampolini, che nel progetto ambizioso di Miliardi aveva creduto fino in fondo. Noi chiamavamo Pentassuglia lo zio del Sud e lui, magico affabulatore, pensava invece che lo zio vero fosse quel pivottone afroamericano nato il 10 settembre del 1948 a Germantown, in Pennsylvania, cresciuto fra i gatti selvatici di Ogden nello Utah.
Sojourner detto Arcobaleno, lui era luce per qualsiasi passatore di palla ben educato, lui indicava la strada e Rieti gli ha voluto bene quando lo ha accolto nel 1976 per vincere il campionato di A2 con il nome Althea. Veniva da una pallacanestro dove la seconda scelta di Chicago, anno 1971, era stata capace di ribellarsi al sistema accettando le offerte di una lega professionistica, l’Aba, che voleva contrastare la grande Nba. Quattro stagioni fra i Virgina Squires e i New York Nets, ma era abbastanza. Lo volevano in Italia, accettò la scommessa. Furono sei anni straordinari per tutti, lui che aveva trovato una famiglia nuova, noi che lo vedevamo giocare, il suo allenatore che mai aveva avuto un centro capace di essere arcobaleno nel cuore dell’area. Due semifinali scudetto, perdendo contro Varese e la Virtus Bologna, due finali di Korac, lasciando la prima al Partizan, prendendosi la seconda contro il Cibona Zagabria. Era il febbraio del 1980, una notte di magie, travestimenti, felicità tenendo per mano Blasetti, pronipote di un papa, che poi decise di prendere i voti, il riccioluto Brunamonti che intorno a quell’arcobaleno costruì la sua storia, il lungo Danzi, Lee Johnson uomo di seta che aveva bisogno del grande protettore, Sanesi che poi divenne suo parente sposando la sorella Annette, l’irrequieto Scodavolpe, il ragazzo Olivieri e poi Domenico Zampolini un talentone che faceva fatica a seguirne l’esempio, ma che poi, alla fine di una carriera che poteva essere favolosa ed è stata soltanto bella, lo ha richiamato a Rieti. Dove era diventato team manager. E a stupire era proprio il gruppo di sostegno ai giocatori: l’allenatore Lasi, il martello Riva (general manager), Magnifico, il principe, come vice.
Sapevano che in America non tutto gli era andato bene. Lo riportarono a casa, vicino a quell’albero che lo aspettava. Cinquemila persone al Palaloniano gli dissero Willie ti vorremo sempre bene.

Lui accettò di far parte della nuova famiglia, quella stessa che ora lo accompagnerà nell’ultimo viaggio pregandolo di salutare Elio che impaziente aspettava il suo arcobaleno.

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