Cultura e Spettacoli

L’umanità divorata nell’isola dei cannibali

L’umanità divorata nell’isola dei cannibali

«Sull’isola c’era una guardia di nome Kostja Venikov, era giovane. Faceva la corte ad una bella ragazza, anche lei deportata. La proteggeva. Un giorno, dovendosi allontanare, disse a un compagno: “Sorvegliala tu”, ma quello con tutta quella gente intorno, non riuscì a fare granché... qualcuno la prese e la legò a un pioppo: le tagliarono il petto, i muscoli, tutto quello che si poteva mangiare. Quando Kostja tornò, la ragazza era ancora viva. Lui voleva salvarla, ma lei aveva perso molto sangue e morì. Cose così erano all’ordine del giorno».
La vicenda non è tratta da un horror di Stephen King. È molto peggio: il rapporto di una commissione d’inchiesta del partito comunista russo. Racconta di alcune deportazioni in Siberia e porta la data del 1933. Ha certamente fatto scalpore, perché non si limita a restituirci lo spaccato, drammatico e sconcertante, dello sterminio e della deportazione in massa di kulaki e avversari politici, ma ci fornisce anche un disegno più perverso e inumano: il trasferimento forzato in Siberia di migliaia di «elementi socialmente nocivi» con l’obiettivo di creare insediamenti umani nello sterminato Far East sovietico, e soprattutto di verificare le capacità di adattamento degli esseri umani. L’episodio è rimasto seppellito tra le nubi della cortina di ferro per più di sessant’anni.
Ora lo studioso Nicolas Werth, uno degli autori del Libro nero del comunismo, ha deciso di ricostruirlo ne L’isola dei cannibali, edito per i tipi di Corbaccio nella collana diretta da Sergio Romano (pagg. 188, euro 16,60, traduzione di Francesco Roncacci). Il progetto originario ideato da Stalin è assai ambizioso: come ci riportano i documenti, si tratta di «insediare niente meno che due milioni di derelitti in territori vergini distanti centinaia di chilometri dalla ferrovia più vicina». Sin da subito, gli oneri finanziari impediscono l’attuazione integrale del programma, ma la piccola isola siberiana di Nazino diventa comunque il teatro muto di uno degli episodi più raccapriccianti dei metodi staliniani. Non è un caso che anni dopo le popolazioni locali la chiameranno l’«Isola della Morte» o l’«Isola dei Cannibali» appunto.
L’odissea delle migliaia di deportati inizia a Tomsk, un «campo di smistamento» lontano 900 chilometri dalla loro destinazione. E da subito le irregolarità nel rastrellamento sono talmente evidenti da apparire ingiustificate anche ad alcuni tra i più spietati sgherri comunisti. Un rapporto di un dirigente dell’Ufficio politico denuncia a esempio deportazioni indiscriminate di uomini ultracentenari, bambini orfani di entrambi i genitori e ligi apparatchik fedeli al vangelo di Lenin. Come Pëtr Cal’, un sarto la cui figlia è «membro di Partito e lavora come diplomatico all’estero. Deportato in quanto proprietario della casa in cui viveva».
Per cinquemila di essi - i confinati che vi stazionano sono molti di più - la permanenza nella stazione di Tomsk dura comunque poco: a metà maggio del ’33 giunge l’ordine, inaspettato perché dato anzitempo, di trasferimento nell’isola di Nazino. Ordine eseguito il 15 maggio (i deportati giungeranno a destinazione soltanto tre giorni dopo, stipati come carne da macello in tre piccole chiatte). Lo spettacolo che si apre agli occhi dei funzionari russi di stanza nell’«Isola della Morte» è tra i più agghiaccianti: dei cinquemila, almeno un terzo sono scarni e derelitti. Alcuni sono già morti. Le razioni alimentari sono insufficienti: ne arrivano un terzo di quelle previste, ma manca ogni tipo di infrastruttura. I morti di inedia aumentano ogni giorno: il 23 maggio superano quota 70.
«A cinque di loro - scrivono i tre ufficiali sanitari presenti nell’isola - fegato, cuore, brandelli di carne tenera (seni, polpacci) sono stati asportati. A uno dei cadaveri sono stati amputati la testa e i genitali e asportata parte della pelle. Nella sola giornata odierna, gli stessi deportati ci hanno consegnato tre uomini con le mani insanguinate e in possesso di fegati umani».
Otto giorni dopo viene accertato il primo episodio di cannibalismo. La giustificazione delle autorità è incredibile: secondo i medici, gli individui che hanno commesso gli atti di antropofagia non sono né completamente smagriti né affamati. Sono solo dediti a quella pratica per abitudine, «poiché erano cannibali da molto tempo». Incuranti del fatto, le autorità del campo, continuano a deportare uomini fino a quando Robert Ejche, «il padrone della Siberia occidentale», decide di porre fine all’affaire Nazino. Il 12 giugno l’isola è interamente sgomberata e i superstiti sono trasferiti in alcune zone vicine.
Il bilancio è di oltre quattromila morti. Sebbene i fatti dell’«Isola dei Cannibali» siano una delle pagine più cruente e insensate della dittatura russa, statisticamente rappresentano soltanto una goccia nel mare delle atrocità staliniane. Nel solo 1933 scompaiono infatti nel nulla quasi quattrocentomila «elementi socialmente nocivi».

Vittime, insieme ad altre decine di milioni di persone, due volte: dovranno infatti passare sessant’anni prima che la loro storia riaffiori tra le secche di un’ideologia delirante e disumana.

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