Cultura e Spettacoli

L’unico prodotto che non soffre crisi Anche se un Nobel vende 2000 copie

Un paio di anni fa la Rai e Pippo Baudo s’inventarono una trasmissione intitolata Popolo di poeti allo scopo di «incentivare la poesia in Italia». Come se la poesia nel nostro Paese avesse bisogno di essere incentivata, e non invece il contrario. È l’unico prodotto che non conosce crisi, che resiste a tutte le catastrofi economico-finanziarie. Ai poeti lo «spettro della Grecia» (che pure in fatto di lirica qualcosa da insegnare l’avrebbe) li fa ridere. Continuano imperterriti a produrre capi d’opera versificatori a ritmi da crescita del pil cinese. Se in tempi di vacche magre scrivevano una raccolta l’anno, ora la produzione è triplicata. Le redazioni delle case editrici, delle riviste letterarie, dei premi di poesia sono sommerse: migliaia di manoscritti l’anno. L’oceano di internet è una marea inquinante di blog in versi: digitando la parola «poesia» su Google escono 27 milioni di pagine; su Yahoo! 180 milioni. All’inizio dell’anno erano qualche decina di milioni in meno. Si vede che la crisi ispira.
Verrebbe da pensare che pubblicare poesia sia l’affare del secolo. E per gli editori di libri a pagamento certamente lo è: la vanità di vedere il proprio nome stampato su una copertina val più delle poche migliaia di euro che costa.
A nessuno è mai venuto in mente di calcolare quante poesie siano state scritte negli ultimi due o tremila anni da decine di milioni di poeti nelle decine di migliaia di lingue che si sono parlate e scritte nel mondo? Miliardi e miliardi di versi. E ci sarebbe qualcosa di nuovo da dire? Forme inedite per descrivere albe e tramonti, gioie e dolori, passioni brucianti e amori finiti? Per esprimere i propri frusti sfoghi romantico-adolescenziali?
Ogni anno in Italia si pubblicano 3mila libri di versi (30mila in dieci anni), mentre le raccolte dei poeti più importanti, anche dei Premi Nobel, vendono mille, duemila copie.
No: quello che serve alla poesia non sono campagne promozionali «per incentivarne la produzione», ma serie campagne pubblicitarie per far capire che, se nessuno vieta di scrivere poesie, prima di tutto bisogna leggerle. La lettura di un buon libro di poesia (per non sbagliare stiamo sui classici) vale più di migliaia di mediocri versi autoprodotti. Che se solleticano un’effimera vanità, possono riservare cocenti delusioni alle proprie aspettative. Come capitò a un esordiente poeta fiorentino, che pubblicò a proprie spese la prima raccolta e la distribuì in alcune librerie della sua città. Incredibilmente, pian piano il libro andò esaurito. Non è difficile immaginare la sua soddisfazione. Ma neppure la sua sorpresa quando, alla morte della nonna, trovò nel di lei armadio tutte le mille copie.

Integre e intonse.

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