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L’uomo che rimonta sempre il giocattolo

di Giancarlo Perna
In questi stessi giorni di quattro anni fa, Enrico Preziosi era agli arresti domiciliari, sospeso dalla carica di presidente del Genoa, considerato dalla stampa un Totò Riina del calcio. Fu un periodo di peste. Per non crollare di schianto, il poveretto si automontò definendosi «un multipallico» e andò in giro tra i tifosi urlando ossessivamente «io non mollo, io non mollo». Sembrava un pazzo furioso. Poiché i genoani gli erano affezionati e non volevano che, dopo tutto il resto, fosse anche rinchiuso in manicomio, ripeterono con lui «io non mollo, io non mollo» fingendo una follia collettiva che mise Preziosi al riparo dall'internamento individuale. Musicato dai cantastorie, «io non mollo» risuonò tra i carrugi e comparve stampato a grandi lettere sulle magliette dei frequentatori della Curva nord di Marassi.
Quella parentesi avvilente si è chiusa. Preziosi è oggi sulla cresta dell'onda. Tutti lo esaltano e non solo a Genova, ma sulla stampa calcistica dalle Alpi al Lilibeo. Il Genoa, di cui il Multipallico è proprietario dal 2003, attraversa il periodo migliore dal dopoguerra. È in cima alla classifica di serie A, fila come un treno nelle coppe europee. Giampiero Gasperini, l'allenatore da lui scoperto, si è inserito - tra Napoleone e Lippi - nell'empireo dei grandi strateghi. Alberto Zapater, lo spagnolo ventiquattrenne, fa sognare. Preziosi l'ha comprato dal Saragozza, strappandolo alla concorrenza della Fiorentina del sussiegoso Diego Della Valle. Prima, il giovanotto segnava poco. Ora è un ciclone. Si è specializzato nei calci di punizione a pallonetto, lo stesso genere di Alex Del Piero, e fa più gol di lui. Tutti lodano il fiuto di Preziosi e i maggiori intenditori ne fanno oggetto di analisi sofisticate. Passa adesso per uno dei grandi patron del calcio italiano e le sue disavventure sono perdonate. Ribaltandone il significato, sono anzi viste come prova di passione sportiva e inarrivabile intuito.
Come tutti gli avventurosi, con qualche tratto dell'avventuriero, Enrico Preziosi è un tipo sfaccettato. Fino a poco tempo fa, soprattutto dai giornali moralistico-snob genere Repubblica, era considerato della razza dei Gaucci (ex boss del Perugia ricercato tra i mari dei Caraibi) e dei Cragnotti (ex Lazio con frequenti viavai in diverse Procure). Ora è messo sul piano dei Moratti e degli Elkann, gli insospettabili per partito preso. Dalle stalle alle stelle come direbbe il poeta.
Ci sono, com'è noto, due Preziosi. C'è l'imprenditore dei giocattoli e l'appassionato di football. In passato, era discretamente stimato solo il primo. L'altro era percepito come accaparratore di squadre per farci i soldi e occupare la ribalta. In fondo, due giudizi di comodo. Ora, con altrettanta superficialità, si tende a unificare le due figure, santificandole entrambe.
Preziosi è un sessantunenne di Avellino. Il cognome è molto diffuso in zona e ci fu anche un sindaco Preziosi qualche decennio fa. Pare però che non sia parente e pochi in Irpinia ricordano il nostro Enrico finché ci ha abitato. Il padre era un orologiaio con bottega in centro città. Morì che il ragazzo aveva 16 anni e la madre, non fidandosi del rampollo, vendette il negozio. Per rabbia, Enrico partì per il Nord. La leggenda di questi primi anni di esilio è piuttosto confusa. Secondo alcuni il trasferimento in Padania non sarebbe stato immediato. Il ragazzo, infatti, avrebbe lavorato come manovale nei cantieri dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria. È possibile, anche se la figura di Enrico non è quella di un badilante. Diversamente dagli irpini più noti come l'imponente Ciriaco De Mita e Nicola Mancino, detto Piedone per la stazza, il figlio dell'orologiaio era piuttosto piccolino e magretto. Anche i capelli biondo-crespi, l'incarnato pallido e la dentatura da leprotto, ne facevano piuttosto un tipo da inserire nei ranghi del Catasto o, tutt’al più, un commesso per merci leggere, scarpe, guanti e cose così.
Ed è proprio in un negozio di giocattoli di Cesano Maderno che lo ritroviamo al Nord, stando alla prima notizia certa. Il proprietario lo prese a benvolere perché, contrariamente a lui, capiva all'istante il funzionamento dei giochi elettronici che cominciavano ad arrivare da Cina e Giappone. Enrico in breve prese in mano tutta l'attività allacciando stretti rapporti coi rappresentanti e i produttori. Si trasferì a Lambiate e, nel 1978, fondò la «Giochi Preziosi», una società di import-export di giocattoli. Intraprendente e motivato, il trentenne vendeva i suoi prodotti anche facendo il piazzista porta a porta.
Per qualche tempo gli affari andarono a rilento, finché ebbe un colpo di genio: reclamizzare la merce in tv. Prima sulle locali, poi sulle nazionali. Di grande aiuto fu la rete privata che Silvio Berlusconi stava mettendo in piedi. «Senza di lui, non sarei mai diventato così ricco», ha ripetuto spesso.
Adottò una tecnica pubblicitaria che definire assillante è poco. Infatti, fu soprattutto subdola. Attendeva i bambini al varco quando accendevano la tv il pomeriggio per vedere i cartoni animati. Quelli stavano lì a godersi il cartoon, quando all'improvviso arrivava il promo con l'immagine dei giocattoli più appetibili e nel sottofondo il jingle musicale «din, din, Giochiii Preziosiiii». A quel punto, non c'era più verso di tenere i frugoli davanti alla tv perché tutti, da Milano a Bari, piantavano la nota grana: «Vogliamo i Giochiii Preziosiiii» continuando a frignare finché non erano accontentati. Così, Multipalle ho costruito il suo impero. Oggi, la Giochi Preziosi ha sede a Cogliate (Mi) ed è la seconda azienda europea del settore dopo Lego. La quarta al mondo dopo Mattel e Hasbro. Produce merendine, snack, gadget, calzature e altre cose per teenager. Fa una bambola, la Bratz, che contende il primato a Barbie. Suo è Cicciobello. Ha un fatturato ben oltre i mille miliardi di vecchie lire e occupa 2000 dipendenti. Alcuni anche in Cina.
Diventato ricco, Enrico volle diventare famoso. Ed è entrato nel calcio, il modo più semplice per essere sulla bocca di tutti. Nei primi anni '90, comprò il Saronno portandolo dalla serie D alla C1. Sfiorò la B prima di rivendere la squadra. Nel 1997 acquistò il Como in C1 e lo portò in A. Nel 2003, come sappiamo, prese il Genoa e trasferì il suo domicilio sotto la Lanterna. Nel mondo del pallone si fece subito notare perché cambiava allenatori ogni due per tre e litigava con gli arbitri. Senza dire dove e quando, basti sapere che licenziò Donadoni dopo tre partite, Loris Domissini che aveva portato il Como dalla C alla A, Serse Cosmi preso da poco al Genoa. All'arbitro Bolognino sibilò che «avrebbe fatto meglio a fare il giudice di gara in Africa». Preso da raptus antiarbitrale, mischiò calcio e industria producendo un gioco che si chiamava «Akkiappa l'arbitro». Poi lo ritirò perché la categoria minacciava sfracelli. Ne mise in vendita un altro «Questo gioco del ca... lcio» in cui si dava la caccia a un «uomo nero» che fu subito individuato in Franco Carraro, da lui detestato e allora presidente della Figc. Su costui, che da quarant'anni balza da una carica all'altra, si chiese giustamente: «Ma quanti sederi ha per occupare tutte quelle poltrone?». Ha avuto battibecchi a non finire. Molti si sarebbero trasformati in querele se Preziosi non avesse una caratteristica: molto di quel che dice è incomprensibile. Di suo ha una voce roca e in più, sballottato da Sud a Nord, ha acquistato una cadenza ignota. Né irpina, né padana. Vocali strettissime che generano ululati indecifrabili e di conseguenza non querelabili.
La fortunata circostanza non gli ha però evitato altre grane giudiziarie. Il suo anno di tregenda fu il 2005. Il Genoa era stato appena promosso in A dopo una epica partita contro il Venezia. Ma la Guardia di Finanza, che era andata nell'azienda di Cogliate per una normale ispezione, scoprì che quella vittoria era frutto di un broglio. Fu infatti fermato in fabbrica un consulente del Venezia che stava sgattaiolando con una valigetta contenente 250mila euro liquidi. La prova della corruzione. Almeno così ritenne il giudice sportivo che retrocesse il Genoa in C1 e inibì a Preziosi la carica di presidente per cinque anni. Un mese dopo, la magistratura ordinaria lo accusò di bancarotta fraudolenta del Como. Enrico infatti si era preso i migliori giocatori della sua ex squadra e li aveva inseriti nel Genoa senza pagare una lira o quasi. Contestualmente, il giudice ordinò il suo arresto in casa. Durò solo quattro giorni, perché Preziosi mise subito mano al portafogli evitando guai maggiori. Ma egualmente fu il tracollo della sua reputazione come abbiamo visto all'inizio. La rivolta popolare e il fatto che il patron abbia affrontato le proprie responsabilità gli hanno però fatto, sia pure a stento, risalire la china.
Per diversi mesi il Multipallico se la vide comunque brutta. Gli capitò anche un fatto amaro che lo fece piangere e rabbrividire. Era in auto dalle parti di Milano collegato con una tv di Genova per un dibattito con l'allenatore Franco Scoglio, detto il Professore. Si parlava del Genoa del quale Scoglio era stato mister e di cui contestava la conduzione. Litigavano di brutto con battute come queste. Scoglio: «Mi chiami dottore o professore, non Scoglio». Preziosi: «Io la chiamo Scoglio e basta». Scoglio: «Allora lei è un gran maleducato perché io la chiamo presidente». Furono le sue ultime parole. Reclinò la testa e morì all'istante colpito da infarto. Preziosi, che era in auto, inconsapevole di tutto, continuò a dire la sua con tono alterato. Poi il collegamento si interruppe. Quando seppe, Enrico per poco non moriva anche lui. Siccome era in disgrazia, lo accusarono larvatamente di avere ucciso l'interlocutore con la sua veemenza. Era una stupidaggine e la cosa finì lì. La gente però, temendo il malocchio, cominciò a evitarlo.
Ora che invece è in auge fa a gara per toccarlo. Da menagramo a cornetto napoletano.

La vera svolta del suo destino.

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