«L’urto e sei sterzate Così ho ucciso un uomo per strada»

«L’urto e sei sterzate Così ho ucciso un uomo per strada»

da Milano

Gli ultimi cento metri della sua vita, Giovanni Conti li trascina appeso al cofano dell’auto che l’ha appena investito. Tre passi sulle strisce pedonali, pochi secondi prima che inizi la fine. Velocità e urto. E lui, Giovanni, ancorato a quel bolide che l’ha investito, e che ora scarta da destra a sinistra e ancora a destra per scrollarsi di dosso quel corpo ostinato. Così, per sei volte. Fino a che i 71 anni del pensionato non reggono più la presa. E quando le mani cedono, cede anche l’uomo. Cadavere in strada. Travolto.
Giovanni Conti rimane in terra, l’auto che l’ha ucciso sfreccia lontana. L’ultima corsa è la sera del 16 settembre, subito dopo è un rogo che brucia la macchina in un campo nomadi alla periferia di Milano. Le fiamme consumano le tracce dell’incidente, la targa viene fatta sparire e sostituita da un’altra. La matricola, però, non è cancellata. Tanto basta. Per due settimane il «pirata» rimane senza volto. Fino a quando un controllo, fortuito, le dà un nome e un volto: Angelica Mirella De Bon, 24 anni di Monza, con precedenti per estorsione e rapina. Fermata martedì scorso dalla polizia di Varese, e portata immediatamente in Procura.
Regge poco, Mirella, davanti al magistrato. Le domande del pm Grazia Pradella la incalzano. Ci sono testimoni che hanno visto, diverse persone che hanno raccontato di quell’auto e dell’incidente, del pensionato trascinato per metri lungo una strada - via Padova a Milano - che in assenza di traffico è come una pista da corsa. E lei, con freddezza, confessa.
«Sì - ammette quasi subito - ero io al volante della Mercedes classe A che ha investito quell’uomo». Attimo per attimo, la sua ricostruzione. «L’ho visto all’ultimo momento, ho provato a scansarlo ma non ho fatto in tempo, e l’ho colpito con la parte anteriore destra del cofano». Memoria agghiacciante e lucida, quando ricorda che «ho sterzato per sei volte per farlo cadere», uno zig-zag che «è durato più o meno cento metri», poi - la macchina libera - «dopo l’incidente sono scappata perché ho avuto paura». Paura, anche di farsi trovare. Per questo «sono stata io a dare alle fiamme la macchina nel campo nomadi».
Dice che quella sera non era ubriaca, e che di droghe non ne aveva prese. Dice anche, però, che la patente non l’ha mai ottenuta, e in realtà non ha in tasca nemmeno il foglio rosa. Semplicemente, Mirella guidava un’auto che non poteva guidare. Eppure quella Mercedes gliel’avevano intestata, così come avevano fatto con altre due macchine. Non un regalo, però. Più probabilmente, qualcuno aveva preferito che fosse il nome della ragazza a comparire nei registri della motorizzazione. Qualcuno - sospettano gli inquirenti - che vive nel campo rom dove la carcassa carbonizzata dell’auto è stata trovata. Forse, la stessa persona con cui Mirella ha da tempo una relazione.
Poi, davanti al pm, finisce per piangere. Lacrime di rabbia, non di pietà. La stessa rabbia con cui si rivolge al magistrato il giorno della convalida del fermo, quando il giudice conferma l’ipotesi di reato avanzata dalla Procura, ribadendo l’«indifferenza e disprezzo per la vita umana» mostrati dell’indagata. Pochi minuti dura l’udienza, e la ragazza si scaglia contro il pm Pradella, la insulta e «spero che ti capiti quello che è successo a me». Ambiguo, il desiderio. Che non è chiaro se l’augurio sia quello di trovarsi coinvolta anche lei in un incidente mortale, o essere oggetto di un’accusa che non ha sfumature: omicidio volontario aggravato dalla crudeltà verso la vittima.
Peggio di così - per un incidente stradale - niente.

Fosse il tempo delle sentenze, sarebbe l’ergastolo. Per ora, è solo un fermo che apre le porte del carcere di san Vittore. A maleparole contro tutto e tutti, Mirella lascia il tribunale. L’ultima corsa è in un blindato della polizia.

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