Roma L’aborto «fai da te», anche con pillole che interrompono la gravidanza, è illegale. Ma il reato, afferma la Cassazione, è punito con la multa e non con la reclusione. Un’ammenda tutto sommato inferiore a quella di un’infrazione stradale: 51,65 euro.
Il caso arrivato davanti alla Suprema Corte riguarda una immigrata di 31 anni residente a Milano, che nel maggio del 2007 ha abortito all’ottava settimana assumendo un farmaco, il Cytotex, prescritto per la cura dell’ulcera ma che ha come effetto secondario l’interruzione di gravidanza. A quel tempo in Italia non era stato ancora approvato il protocollo per la pillola abortiva Ru486, ma evidentemente i surrogati in farmacia non mancavano.
Solo che quando la donna straniera è stata visitata all’ospedale di Legnano, in seguito ad un’emorragia, ha dovuto spiegare di aver preso quella medicina rischiosa nelle sue condizioni ed è stata denunciata all’autorità giudiziaria.
In primo grado è stata condannata a 40 giorni di carcere, pena sospesa dalla condizionale e la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza. Ora, però, la Cassazione corregge il tiro, rimproverando ai giudici di primo e secondo grado un’eccessiva severità. La Procura aveva chiesto l’assoluzione della donna «perché il fatto non costituisce reato», ma la Quinta sezione penale del «Palazzaccio» annulla la sentenza impugnata solo riguardo il trattamento sanzionatorio, rinviando il caso alla Corte d’appello. E ordina ai giudici di secondo grado di applicare tutti i «benefici di legge», cioè il trattamento più clemente possibile.
La sentenza 44107 della Cassazione afferma dunque che il reato c’è, perché l’aborto deve sempre avvenire in ospedale sotto controllo medico, ma è punito con la multa e non con la reclusione.
L’interruzione di gravidanza, infatti, secondo la legge 194 del 1978, è autorizzata solo «previo intervento della struttura socio sanitaria nel tracciare il percorso dapprima psicologico e poi medico che la donna che intenda abortire è tenuta a stabilire».
È questo uno dei punti sui quali più hanno insistito gli esponenti politici cattolici sia nel governo che nel parlamento, quando è stata autorizzata nel nostro Paese la pillola abortiva e si è anche aperto il dibattito sull’obiezione di coscienza non solo di medici ma anche di farmacisti.
Nel caso specifico della signora straniera che ha fatto ricorso, la Cassazione stabilisce che non è una giustificazione valida il fatto che l’interessata non sapesse (come ha affermato) di commettere reato, assumendo la pillola con modalità «fai da te», in un’epoca in cui non c’era alcun protocollo per l’assunzione di pillole abortive. «L’ignoranza delle modalità previste dalle legge 194 - si legge nella sentenza-, per la realizzazione legittima di una condotta volontariamente abortiva non può che costituire ignoranza della legge penale in linea di principio incapace di escludere la responsabilità».
La signora è quindi colpevole per aver assunto una medicina capace di farla abortire senza rispettare le procedure previste dalla legge, cioè il contatto con l’ospedale per tracciare un percorso prima psicologico e poi medico.
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