Ho pensato a un dialogo tra la pittura narrativa di Renato Guttuso e la scultura esistenziale di Ernesto Lamagna. Il teatro del confronto è il museo di Palazzo Doebbing a Sutri. Di Guttuso si propongono le opere, nell'arco di quarant'anni della collezione di Lino Mezzacane, dal ritratto di Mimise alla Vucciria. Ernesto Lamagna ha una lunga storia di opere pubbliche, prevalentemente di soggetto religioso, ma fortemente legate al destino e alla fragilità dell'uomo. In entrambi gli artisti agisce la suggestione dell'espressionismo.
Negli anni Novanta Ernesto Lamagna ha realizzato importanti opere pubbliche. Suoi sono i due portali per la basilica di Santa Maria della Vittoria, a San Vito dei Normanni. Ha scolpito anche i tre portali di bronzo del Santuario di Nostra Signora di Bonaria, a Cagliari. Del 1975 è la porta, per la chiesa parrocchiale di Santa Maria della Libera e San Sebastiano, nel Comune di San Severo (Foggia). Di Lamagna è anche la Porta della vita, in bronzo, per il santuario Mariano di Rodi Garganico; e sue sono le porte dell'oratorio di San Filippo Neri di Molfetta. Ombra, prima che luce, dei tempi. Che il tempo non disperde ma potenzia. Lamagna affida l'uomo fragile alla provvidenza di Dio, ne conosce la debolezza, l'urgenza di Dio, anche se Dio non dà segnali certi di sé. Dio è lontano. Da Dio siamo lontani tutti. Lamagna confida nella salvezza dell'uomo, nel suo destino individuale.
Guttuso non ci parla dell'uomo, ma dell'umanità, come coscienza collettiva della storia. Qui il comunismo lo soccorre, e favorisce la sua pittura. Pittura narrativa, pittura civile. Estrema testimonianza di realismo illustrativo, di cronaca che si fa storia. Il controcanto sofisticato di questa esperienza, a cavallo tra storia religiosa e sensibilità individuale, prescindendo dalla fede, che è consolazione, è nell'opera solitaria, fortemente consistente, e mai ripetitiva o replicante, di Ernesto Lamagna, lo scultore italiano più significativo dopo Marino Marini, tra Perez e Vangi, espressionista e simbolista, ma soprattutto potentemente drammatico, in una sintesi plastica senza paragone, a un tale grado di verità. Lo dice di sé e di una sua opera, lo stesso Lamagna: «Sì, questa scultura rappresenta la lotta di secoli, tra il bene ed il male. È una porta in bronzo che mi è stata commissionata».
Ed ecco come un tema religioso, o devozionale, può essere trasformato, farsi un tema umano ed esistenziale: «Non dimentichiamolo, c'erano Picasso, Manzù, Dalí, e tra questi, anche io. C'era un tema fisso da rispettare però. Dato che Giovanni Paolo II, nello stemma, aveva la M di Maria, la madre, il tema, obbligatoriamente, doveva essere quello di Maria, ed io non sapevo cosa fare, non avendo mai rappresentato la Madonna. Da poco avevo perso mia madre, dopo nove anni di malattia, lei si era spenta già da tempo anche mentalmente, perché si ammalò di Alzheimer, una malattia tremenda, e si era ridotta su questa sedia a rotelle, indifesa come una bambina, bisognosa di tutto... Per me, quei nove anni di malattia di mia madre, che ho affrontato anche grazie all'aiuto di mia moglie, sono stati anni che mi hanno devastato, tant'è che mia madre l'ho rappresentata, con in mano una maschera che per metà rappresenta il mio volto, e per metà è già un teschio. Questo dolore immenso, la malattia, la morte di mia madre, è stata in parte anche la mia morte...! Ai suoi piedi ho collocato un melograno spaccato che indica fertilità e donazione totale. Il melograno, nel momento più bello della sua vita, quando è maturo, si spacca e muore, donando mille semi come mille gocce di sangue, ma ogni goccia è vita. Io non faccio sculture per arredare la casa, non mi interessa... l'arte non è dozzinale, è un'altra cosa, l'arte è quella di Michelangelo, di Caravaggio, nelle cui opere c'è il sangue. Questa è arte! Dicono che le mie sculture sono un pugno allo stomaco, non concordo, sono frammenti di vita, di anima, questo dovrebbe sempre esserci nella autentica arte! L'artista deve parlare con le sue opere».
Una verità essenziale, profonda, che va ben oltre Guttuso. Un'arte implicata, potentemente espressionistica, che dialoga con prove fortemente motivate come quelle di Renzo Vespignani, di Ennio Calabria, senza nulla concedere, nella sua integrità e intensità emotiva, al formalismo esasperato e dolente di Giuliano Vangi. Lamagna si mette in discussione contro e dentro la realtà, in una continua sfida, in un rischio esistenziale, che non ammette cali di tensione, tenendo come modelli artisti tedeschi come Dix e Grosz. È ancora lui a dirci, disarmato, dopo tanta forza espressa: «Quella dell'artista è una meravigliosa condanna. Ci sono momenti in cui è convinto di aver raggiunto la perfezione, la bellezza. E sono momenti di grande esaltazione, di grande gioia. Ma dopo poco si rende conto che non è così, non ha raggiunto quella bellezza, e quindi va in depressione. È come entrare nella Cappella Sistina: vedi le mani di Dio e di Adamo che sembra si tocchino, poi mano a mano che ti avvicini ti rendi conto che si sfiorano. È la condanna dell'artista: non può fare a meno di tendere a quella mano. Ci sono momenti in cui si illude di averla afferrata, ma non è così. La vita dell'artista è sempre altalenante».
Ma la sua tensione creativa resta sempre alta, all'attacco, e non in difesa, drammatica; alla ricerca dello scontro, mai lirica, mai doma. La scultura di Lamagna combatte, fuori di ogni condiscendenza, e di ogni indulgenza verso se stesso. Scultura dura, implacabile, e implacata. Anche quando si volge agli angeli, e al loro moto interiore.
E come ormai nessuna esperienza creativa, deviata verso il ludico e il patetico, «implicata», come chiedeva, contro ogni decadente forma di arte applicata, pubblicitaria, facile e ammiccante, condiscendente, senza grido, Leonardo Cremonini. La scultura di Lamagna urla. Contro il destino. Contro la storia. Contro la morte. Di tanta arte necrofila.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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