L'analisi: un voto che può cambiare il Medio Oriente

Se Moussavi, il candidato riformista, riuscisse  a sconfiggere il superfalco Ahmadinejad nelle presidenziali iraniane e mettesse poi in pratica tutto ciò che ha detto in campagna elettorale, molte cose cambierebbero in Medio Oriente

Se Mirhossein Moussavi, il candidato riformista, riuscisse domani a sconfiggere il superfalco Ahmadinejad nelle presidenziali iraniane e mettesse poi in pratica tutto ciò che ha detto in campagna elettorale, molte cose cambierebbero in Medio Oriente. Il sessantasettenne ex primo ministro, sostenuto dal potente clan dell'ex presidente Rafsanjani, auspica rapporti più distesi con l'Occidente, condanna la negazione dell'Olocausto, è pronto ad accogliere l'offerta della nuova amministrazione americana per un negoziato globale e, pur insistendo sul diritto dell'Iran all'arricchimento dell'uranio, sembra disponibile ad aprire nuovamente le porte agli ispettori dell'Aiea, che ne garantirebbero l'uso pacifico: una vera e propria rivoluzione rispetto alle posizioni dell'attuale capo dello Stato, che ha fatto della sfida a Israele, al Grande Satana americano e ai suoi alleati europei la propria bandiera, con la conseguenza di isolare l'Iran e di attirarsi tre pacchetti di sanzioni dal Consiglio di Sicurezza.

Un riavvicinamento agli Stati Uniti comporterebbe infatti inevitabilmente anche una presa di distanza da Hamas e da Hezbollah, le due organizzazioni terroristiche che condividono la volontà di Ahmadinejad di cancellare lo Stato ebraico dalle carte geografiche e che finora Teheran ha rifornito generosamente di armi e denaro; comporterebbe una collaborazione con Usa e Nato nella stabilizzazione dell'Afghanistan, quale è auspicata dalla Farnesina; comporterebbe anche (ma questa ipotesi appare più remota) una minore interferenza negli affari interni iracheni, che dovrebbe facilitare il ritiro americano.

In cambio, l'Iran potrebbe ottenere la cancellazione delle sanzioni, e una ripresa degli investimenti occidentali necessari per rinnovare le sue ormai obsolete installazioni petrolifere e a uscire dalla crisi provocata dalla dissennata gestione di Ahmadinejad. Infine, la ragionevole certezza che l'Iran non intende più dotarsi dell'arma nucleare, diventata una vera ossessione per Gerusalemme, dovrebbe anche rassicurare Israele e renderla più disponibile alla ripresa del negoziato di pace, sia con i palestinesi sia con la Siria, che una volta privata del sostegno di Teheran finirebbe col ripiegare a sua volta su posizioni più moderate.

A questo scenario ottimistico si oppone, tuttavia, un gigantesco e forse insuperabile «ma»: nella bizantina struttura di potere della repubblica islamica, le decisioni finali in materia di politica estera non spettano al presidente, ma alla suprema autorità spirituale, l'ayatollah Ali Khamenei, che ha sempre condiviso l'estremismo di Ahmadinejad, lo ha appoggiato nella campagna elettorale ed ha già respinto la mano tesa di Obama. Se anche Moussavi dovesse trionfare, verrebbe a trovarsi in una posizione simile a quella dell'ultimo presidente riformista, Khatami, che in otto anni non è mai riuscito a imporre la sua linea moderata.

C'è solo una importante differenza a suo favore: egli

arriverebbe alla presidenza sull'onda di una grande ondata popolare, alimentata soprattutto dai giovani e dalle donne, che in questi giorni ha trasformato il volto di Teheran e che neppure Khamenei potrebbe ignorare.

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