Quando, a metà degli anni Ottanta, Paolo Paradiso decise di andare a vivere e a lavorare negli Stati Uniti, probabilmente non immaginava che l’America sarebbe divenuta per lui una “magnifica ossessione”… Grafico, pubblicitario, fotografo, la pittura sino ad allora era stata una passione e non una professione, ma ben presto l’esperienza degli States si trasformò in esigenza artistica, volontà di riproporre su tela una sorta di visione del mondo e della vita all’interno della quale le icone dell’ American Way of Life rivivevano nella pienezza dei colori e nella moltiplicazione dei soggetti. Vent’anni dopo, rientrato in Italia, l’atmosfera americana” è divenuta la costante della sua linea pittorica, un originale “senza tempo” all’interno del quale suggestioni cinematografiche e letterarie, pittoriche e fotografiche contribuiscono alla creazione di una vera e propria geografia dei sentimenti.
Adesso una personale di Paolo Paradiso approda alla Galleria Ponte Rosso di via Brera 2, la stessa che anni fa gli assegnò il Premio di Pittura Carlo Dalla Zorza, ed è l’occasione giusta, davanti a oli che si chiamano Licence Day, Spamrock bar, Rain in the Street, Must be Sunday, per fare il punto su un artista così originale e così estraneo a ogni scuola.
Come osserva Flaminio Gualdoni nel catalogo che accompagna l’esposizione, Paolo Paradiso prede le mosse “dall’immaginario prfettamente fissato nel tempo tra la Grande Depressione e gli happy days degli anni Cinquanta euforici, perché quello è il momento in cui la metropoli è, a tutti gli effetti, l’idea stessa di metropoli”. La sua America quindi è sempre e soltanto urbana, e nasconde in sé quello che uno storico, Bernard Fay, grande amico della scrittrice americana per eccellenza, Gertrude Stein, definiva “la magnificenza incongrua di New York, il suo potere e la sua voluttuosità, una città di rettangoli, dura e brillante, il centro di una vita intensa che essa espande in ogni direzione, abietta e opulenta”.
In sostanza, Paradiso ha preso la metropoli così com’è oggi, ma vi ha proiettato sopra quella elaborazione che l’iconografia novecentesca ha consegnato ai nostri occhi. Il risultato è una visione sovratemporale dove i panorami della Fairchield Aerial Survey convivono con le desolazioni e gli squarci di vita quotidiana di Hopper, il gusto calligrafico di Norman Rockwell, le teorizzazioni di Berenice Abbot, le ricostruzioni cinematografiche di Martin Scorsese.
Sotto questo profilo, l’olio Thank you Edward non è tanto o solo un omaggio al cantore della metropoli come solitudine e come scuola di vita, ma è l’assunzione di una vera e propria poetica in cui evocazione e realismo, storia e memoria, documento ed emozione si fissano mirabilmente.
Luoghi noti, la Penn Station, il Flatiron, oppure anonimi, i suoi soggetti si impongono come familiari e insieme spettacolari: li conosciamo, eppure ci appaiono del tutto nuovi, li vediamo per la prima volta, eppure ci rimandano a qualcosa che già sappiamo.
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